Ringrazio il cielo che qualcosa d’altro mi ha dato l’educazione di mio padre. Nella nostra casa di Novate, a Natale arrivava Gesù Bambino. Stavamo a ridosso dello stabilimento dei miei e c’era lì la portineria. Il portinaio aveva due figli, uno era Peppino e sarebbe diventato mio amico. Gesù quel Natale portò i doni come sempre: com’è naturale a me portò molto più che a lui. A Santo Stefano giocavo nel cortile dello stabilimento e il Peppino mi porta a casa a vedere i suoi regali. Era felice. E io poi l’ho portato a casa mia. «Guarda i mè, quanti me n’à purtuàa ul Bambin Gesù! Perché mi sunt el fioeu del padrun!» Lo vidi uscire piangendo come un disgraziato. Avevamo cinque anni. Mio papà lo incontra e gli dice: «’Ste ghet?», cos’hai? E il Peppino: «Il Gianni mi ha detto..» «Ah sì! Adess, al ciapi mì», lo prendo io. Alle cinque della sera, quando uscivano gli operai che allora, prima del 1930, erano 25-30, mi mise sulla porta, in ginocchio. Li conoscevo tutti. Timbravano il cartellino: tac-tac, tac-tac. E lui mi picchiava e diceva: «Chi credi di essere tu? Dumanda perdùn! Domanda perdùn! Scemo, stupit. Così imparai che cos’è la vita. Perdùn!» Il tac-tac dei cartellini, gli sguardi degli operai che avevano compassione, mi sono rimasti qui. Sante sberle. Aveva il coraggio di essere padre.
Giovanni Testori, intervistato da Renato Farina, Il Sabato, 5 dicembre del 1992
http://www.tempi.it/sante-sberle-di-natale#.VKLI6sAOA
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