Consentitemi di essere chiaro. Io sono per il diritto alla vita. Ho questa posizione pur ammettendo eccezioni in casi di stupro, incesto o quando è a rischio la vita della madre. Non sempre l’ho pensata così, ma una esperienza personale assai significativa mi ha portato a riconsiderare il prezioso dono della vita. L’aneddoto è ben documentato e quindi non lo racconterò di nuovo ora (1). Tuttavia, nello spazio che mi rimane, voglio esprimere ciò che provo nei confronti della vita e della cultura della vita proprio mentre cade il 43° anniversario del caso Roe v. Wade (2).
Io sono un costruttore. Per costruire bisogna seguire un metodo. Ci si serve di molte arti di cui l’ingegneria è la più importante. Le regole per assemblare le strutture sono molto rigide proprio come lo sono le regole della fisica. Le regole hanno superato la prova del tempo e sono diventate il modo per assembleare le strutture che perdura e che produce bellezza. Gli Stati Uniti, quando sono al loro meglio, seguono un insieme di regole che funzionano sin dall’epoca della fondazione. Una di queste regole è che noi, come statunitensi, onoriamo la vita e questo abbiamo fatto sin da quando i nostri fondatori hanno fatto della vita il primo, e il più importante, dei nostri diritti «inalienabili» (3).
Con il tempo la cultura della vita di questo Paese ha preso a scivolare verso una cultura della morte. La prova forse più decisiva su cui si regge quest’affermazione è che dalla sentenza pronunciata dalla Corte Suprema nel caso Roe v. Wade 43 anni fa a oggi più di 50 milioni di statunitensi non hanno avuto la possibilità di godere delle opportunità che il nostro Paese offre. Non hanno avuto la possibilità di diventare dottori, musicisti, agricoltori, insegnanti, mariti, padri, figli e figlie. Non hanno avuto la possibilità di arricchire la cultura questa nazione o di contribuire con i propri talenti, le proprie esistenze, i propri affetti e le proprie passioni al tessuto di questo Paese. Mancano e ci mancano.
Nel 1973 la Corte Suprema fondò quella sentenza immaginando diritti e libertà che nella Costituzione non ci sono. Se prendessimo per vera la parola di quel tribunale, ovvero che l’aborto sia una questione di privacy, dovremmo logicamente concludere che è il denaro privato quello che deve finanziare questa scelta e non il mezzo miliardo di dollari erogato ogni anno dal Congresso federale ai procuratori di aborti. Il finanziamento pubblico dei procuratori di aborti è quanto meno un insulto alla coscienza delle persone e al meglio un affronto al buon governo.
Inoltre, come se usare il denaro dei contribuenti per agevolare lo scivolamento verso la cultura della morte non fosse già abbastanza, la sentenza del 1973 è diventata una pietra miliare nel dimostrare il disprezzo totale che quel tribunale riserva al federalismo e al Decimo Emendamento (4). Il caso Roe v. Wade ha infatti dato alla Corte Suprema una scusa per smantellare le decisioni prese dalle assemblee legislative dei diversi Stati dell’Unione e il voto espresso dalla gente. Un modo di fare, questo, che da allora la Corte ha ripetuto mille volte. La sentenza nel caso Roe v. Wade è quindi diventata solo l’ennesimo esempio dello scollamento tra il popolo e il suo governo.
Siamo nel pieno di un ciclo politico che porterà all’elezione di un nuovo presidente federale e fra pochi giorni si voterà. I cittadini di questo Paese avranno la possibilità di votare per il candidato che rappresenta la loro visione del mondo. Spero che sceglieranno il costruttore, l’uomo che ha la capacità d’immaginare la grandezza di questa nazione. Il prossimo presidente dovrà seguire i princìpi che meglio funzionano e che rafforzano la venerazione che gli statunitensi hanno nei confronti della vita. La cultura della vita è troppo importante perché la si lasci eclissare per convenienza o correttezza politica. È preservando la cultura della vita che Faremo Grandi Ancora gli Stati Uniti.
Io sono un costruttore. Per costruire bisogna seguire un metodo. Ci si serve di molte arti di cui l’ingegneria è la più importante. Le regole per assemblare le strutture sono molto rigide proprio come lo sono le regole della fisica. Le regole hanno superato la prova del tempo e sono diventate il modo per assembleare le strutture che perdura e che produce bellezza. Gli Stati Uniti, quando sono al loro meglio, seguono un insieme di regole che funzionano sin dall’epoca della fondazione. Una di queste regole è che noi, come statunitensi, onoriamo la vita e questo abbiamo fatto sin da quando i nostri fondatori hanno fatto della vita il primo, e il più importante, dei nostri diritti «inalienabili» (3).
Con il tempo la cultura della vita di questo Paese ha preso a scivolare verso una cultura della morte. La prova forse più decisiva su cui si regge quest’affermazione è che dalla sentenza pronunciata dalla Corte Suprema nel caso Roe v. Wade 43 anni fa a oggi più di 50 milioni di statunitensi non hanno avuto la possibilità di godere delle opportunità che il nostro Paese offre. Non hanno avuto la possibilità di diventare dottori, musicisti, agricoltori, insegnanti, mariti, padri, figli e figlie. Non hanno avuto la possibilità di arricchire la cultura questa nazione o di contribuire con i propri talenti, le proprie esistenze, i propri affetti e le proprie passioni al tessuto di questo Paese. Mancano e ci mancano.
Nel 1973 la Corte Suprema fondò quella sentenza immaginando diritti e libertà che nella Costituzione non ci sono. Se prendessimo per vera la parola di quel tribunale, ovvero che l’aborto sia una questione di privacy, dovremmo logicamente concludere che è il denaro privato quello che deve finanziare questa scelta e non il mezzo miliardo di dollari erogato ogni anno dal Congresso federale ai procuratori di aborti. Il finanziamento pubblico dei procuratori di aborti è quanto meno un insulto alla coscienza delle persone e al meglio un affronto al buon governo.
Inoltre, come se usare il denaro dei contribuenti per agevolare lo scivolamento verso la cultura della morte non fosse già abbastanza, la sentenza del 1973 è diventata una pietra miliare nel dimostrare il disprezzo totale che quel tribunale riserva al federalismo e al Decimo Emendamento (4). Il caso Roe v. Wade ha infatti dato alla Corte Suprema una scusa per smantellare le decisioni prese dalle assemblee legislative dei diversi Stati dell’Unione e il voto espresso dalla gente. Un modo di fare, questo, che da allora la Corte ha ripetuto mille volte. La sentenza nel caso Roe v. Wade è quindi diventata solo l’ennesimo esempio dello scollamento tra il popolo e il suo governo.
Siamo nel pieno di un ciclo politico che porterà all’elezione di un nuovo presidente federale e fra pochi giorni si voterà. I cittadini di questo Paese avranno la possibilità di votare per il candidato che rappresenta la loro visione del mondo. Spero che sceglieranno il costruttore, l’uomo che ha la capacità d’immaginare la grandezza di questa nazione. Il prossimo presidente dovrà seguire i princìpi che meglio funzionano e che rafforzano la venerazione che gli statunitensi hanno nei confronti della vita. La cultura della vita è troppo importante perché la si lasci eclissare per convenienza o correttezza politica. È preservando la cultura della vita che Faremo Grandi Ancora gli Stati Uniti.
(1) Il 6 agosto 2015, durante il primo dibattito pubblico tra i candidati del Partito Repubblicano nelle primarie, rispondendo a una domanda relativa alle sue precedenti posizioni filoabortiste e sul cambiamento poi intercorso, Trump ha raccontato: «E quel che è successo è che anni fa dei miei amici aspettavano un bambino e che quel bambino avrebbe dovuto essere abortito. E invece non è stato abortito. E oggi quel bambino è una superstar assoluta, un bambino grande, davvero grande. E io questo l’ho visto. E ho visto altre cose così. E sono molto, molto orgoglioso di dire che io sono per il diritto alla vita».
(2) Il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema federale concluse il caso Roe v. Wade con una sentenza che cancellò le precedenti norme a difesa della vita umana nascente approvate e vigenti nei singoli Stati dell’Unione, legalizzando così l’aborto in tutto il Paese. Il mondo pro-life considera la sentenza un abuso giacché la Corte Suprema, come sancisce la Costituzione federale, non ha alcun potere di legiferare, ma solo quello di vigilare sulla costituzionalità delle leggi e di esprimersi negli ambiti strettamente costituzionali dei casi che è chiamata a giudicare. Del resto, il caso Roe v. Wade si fonda su una grande menzogna: una ragazza dall’adolescenza rovinata, lesbica, coperta da anonimato, “Jane Roe”, alla terza gravidanza indesiderata, s’inventò di essere rimasta incinta a causa di uno stupro. Supportata da alcune avvocatesse fortemente politicizzate, “Jane” adì il Tribunale distrettuale del Texas e dopo tre anni giunse alla Corte Suprema. Intanto quel suo terzogenito era nato, era stato dato come gli altri due in adozione e “Jane” cambiò la versione dei fatti invocando la necessità dell’aborto a causa dello stato di povertà e di depressione in cui viveva. Anni dopo “Jane” rivelò di essere Norma Leah Nelson McCorvey: accadde quando si convertì prima al protestantesimo e poi al cattolicesimo con don Frank A. Pavone, che oggi è uno dei consiglieri cattolici di Trump.
(3) Sono le parole del preambolo della Dichiarazione d’indipendenza del 1776: «Noi asseriamo che queste verità sono per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi vi sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».
(4) Il Decimo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti, l’ultimo di quelli approvati nel 1791 e noti come Bill of Rights, sancisce che i poteri non delegati dalla Costituzione al governo federale o da essa non vietati agli Stati sono riservati agli Stati o al popolo.
(2) Il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema federale concluse il caso Roe v. Wade con una sentenza che cancellò le precedenti norme a difesa della vita umana nascente approvate e vigenti nei singoli Stati dell’Unione, legalizzando così l’aborto in tutto il Paese. Il mondo pro-life considera la sentenza un abuso giacché la Corte Suprema, come sancisce la Costituzione federale, non ha alcun potere di legiferare, ma solo quello di vigilare sulla costituzionalità delle leggi e di esprimersi negli ambiti strettamente costituzionali dei casi che è chiamata a giudicare. Del resto, il caso Roe v. Wade si fonda su una grande menzogna: una ragazza dall’adolescenza rovinata, lesbica, coperta da anonimato, “Jane Roe”, alla terza gravidanza indesiderata, s’inventò di essere rimasta incinta a causa di uno stupro. Supportata da alcune avvocatesse fortemente politicizzate, “Jane” adì il Tribunale distrettuale del Texas e dopo tre anni giunse alla Corte Suprema. Intanto quel suo terzogenito era nato, era stato dato come gli altri due in adozione e “Jane” cambiò la versione dei fatti invocando la necessità dell’aborto a causa dello stato di povertà e di depressione in cui viveva. Anni dopo “Jane” rivelò di essere Norma Leah Nelson McCorvey: accadde quando si convertì prima al protestantesimo e poi al cattolicesimo con don Frank A. Pavone, che oggi è uno dei consiglieri cattolici di Trump.
(3) Sono le parole del preambolo della Dichiarazione d’indipendenza del 1776: «Noi asseriamo che queste verità sono per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi vi sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».
(4) Il Decimo Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti, l’ultimo di quelli approvati nel 1791 e noti come Bill of Rights, sancisce che i poteri non delegati dalla Costituzione al governo federale o da essa non vietati agli Stati sono riservati agli Stati o al popolo.
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