Suor Monica Chikwe è stanca. Stanca di trovare ragazze, a volte poco più che bambine, schiavizzate da uomini senza scrupoli e costrette a vendere il proprio corpo in un marciapiede sporco di Roma. Stanca di assistere a tanti bravi cattolici, professionisti e padri di famiglia che fanno aumentare la richiesta nel mercato della prostituzione in maniera “imbarazzante”. Stanca di vedere leggi contro clienti e trafficanti applicate per finta.
“Ci rendiamo conto o no che quella della prostituzione è una vera e propria schiavitù?”, dice la religiosa, impegnata nella Renate (Religious in Europe networking against trafficking and exploitation), ai giornalisti che incontra oggi in Sala Stampa vaticana. Con suor Imelda Poole e a Ivonne, una collaboratrice, hanno presentato stamattina la II assemblea europea dell’organismo in programma a Roma il 6-12 novembre sul tema: «La fine della tratta comincia con noi».
I partecipanti incontreranno domenica Papa Francesco. “Gli diremo che siamo contente perché sin dal primo giorno di pontificato ha dimostrato di avere a cuore questo problema sociale. Le sue parole ci incoraggiano. Lui fa già tanto per questo fenomeno, noi gli chiederemo di continuare ad appellarsi alla coscienza dei grandi del mondo, quelli che possono applicare la legge e raggiungere tante persone, affinché le cose possano cambiare”, confida la suora nigeriana.
E non esita ad alzare il tono di voce nel raccontare i drammi che hanno subito e subiscono le tante donne assistite da Renate. Giovani ragazze additate come ‘sfascia-famiglie’, ‘rovina della società’, laddove sono loro le prime vittime. “Una volta – racconta la suora – un uomo stava andando con una prostituta per una prestazione sessuale. Era orario di cena e la moglie a casa lo chiama e chiede: ‘Amore, posso buttare la pasta?’. ‘No – risponde – sono ancora in ufficio, ho tanto lavoro da sbrigare. Facciamo così: ti chiamo appena esco per dirti quando buttare la pasta’. La prostituta guarda quest’uomo e gli dice: ‘Ma che amore hai per la famiglia? Lei ti manifesta tanto amore e tu le dici bugie…’”.
“Ecco, questo è un problema che va affrontato da tutti, a tutti i livelli”, afferma suor Monica. “Oggi assistiamo a tanti femminicidi nella società perché l’uomo usa le risorse della famiglia e le dà alla prostituta. L’amore e le attenzioni che dovrebbe riservare alla moglie le dà alla prostituta. E quando torna a casa sua moglie non è più niente, è un peso da eliminare”.
Allora bisogna andare alla radice di questo cancro del tessuto sociale. Come? “Affrontando il problema del cliente”, dice suor Monica, “e i clienti non scendono dal cielo, sono uomini. L’80%, secondo le nostre ultime statistiche, sono uomini di Chiesa: non preti attenzione, ma laici che la domenica vanno a Messa. Uomini per bene, padri di famiglia, impiegati, vestiti con giacca e cravatta, o giovani 18enni. Il cliente non conosce età e classe sociale”.
Secondo la religiosa, attualmente non esistono proposte concrete per contrastare tale fenomeno. “Ci sono leggi, ma non vengono applicate. Tante ragazze hanno denunciato i trafficanti e questi sono finiti in cella e usciti due giorni dopo. Che legge è? La Francia ha avuto il coraggio di fare una legge che punisce davvero i trafficanti e i clienti, (quella del 6 aprile scorso che prevede multe di 1.500 euro che possono raddoppiare in caso di recidiva ndr), ma in Italia ancora non funziona”.
Da smantellare, spiega suor Monica, c’è un vero e proprio “mercato” gestito da aguzzini che raccolgono le ragazze nei campi profughi o nei loro Paesi d’origine, “magari con scuse del tipo: ‘Sei brava a fare i capelli. In Italia c’è bisogno di parrucchieri, farai un sacco di soldi…’ Poi le aiutano ad ottenere l’asilo politico e da lì inizia l’abisso”.
Il problema principale è che c’è tanta richiesta, anzi “un imbarazzante aumento della richiesta”, afferma la religiosa. E di conseguenza “i trafficanti usano tutti i mezzi e le strategie per portare i loro ‘prodottti’ sul mercato e rispondere a tale domanda. Invece, se tale problema venisse affrontato alla radice, gli schiavisti si seccherebbero come erba nel deserto. Nessuno comprerebbe più e forse cambierebbero mestiere…”.
Oltre a “leggi funzionanti”, secondo suor Chikwe ciò che serve è “un cambiamento di coscienza”: i clienti dovranno prendere parte a una serie di incontri di sensibilizzazione, sul modello di quelli dedicati alla sicurezza stradale e alle droghe, con l’obiettivo di “renderli più consapevoli delle conseguenze delle loro azioni”.
“Solo in questo modo potremmo andare da qualche parte” e porre fine ad un turpe traffico che rovina l’esistenza di donne, uomini e intere famiglie. “La prostituzione non è il mestiere più antico del mondo, ma la tragedia più antica della storia!” esclama suor Monica. “Poi – aggiunge – bisogna distinguere: una cosa è fare la prostituta per volontà mia, una cosa è che qualcuno mi costringe a farlo e mangia su di me”.
E guai a dire che le red street lights, le vie del sesso tanto diffuse in Olanda e Germania, sono una soluzione al traffico umano. “Queste ragazze sono messe in vetrina. Viene da piangere nel vederle esposte come vestiti da scegliere, provare, buttare. La donna non deve essere utilizzata in questa maniera, la donna non è creata per questo, non è lecito che gli uomini le usino come merce”.
Con questo impeto, la suora e gli altri membri della rete Renate svolgono un lavoro sul territorio, concentrandosi in particolare sulla via Salaria, noto crocevia di prostituzione a Roma. È lì che le ragazze vengono avvicinate e viene offerta loro una prima accoglienza. Ogni centro funziona poi come una casa famiglia, dove le donne vengono assistite dalle suore e da esperti che forniscono anche assistenza psicologica.
La maggior parte delle giovani assistite provengono da Nigeria, Romania, ex Unione Sovietica. Alcune sono anche cinesi. Dal 2013 sono state rimpatriate in 34, a volte anche con i loro figli. “Un giorno capitò una ragazza con cinque figli. Li abbiamo rimpatriati tutti. Non è stato facile, ma che dovevamo fare? Far partire la mamma e lasciare i bambini?”, racconta suor Monica.
E ci tiene a chiarire che queste ragazze “non vengono rispedite a casa e basta”, ma sono “indirizzate in progetti personalizzati nei loro Paesi d’origine, in modo da avere un’alternativa e non essere più tentate dal partire. Spesso, infatti, anche se li riabilitiamo psicologicamente sono fisicamente e umanamente distrutte, lesionate, a volte non sono più persone perché hanno subito cose terribili”.
Alla domanda di ZENIT se per il lavoro svolto abbia mai ricevuto minacce, suor Monica Chikwe risponde secca: “Mai. Anche se mi minacciassero, pazienza! Non ho figli, non ho famiglia, e se con il mio lavoro riesco a salvare la vita di una ragazza, cosa mi importa della mia?”
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