domenica 27 novembre 2016

la gente dirà: è morto. In realtà la morte non esiste... appena chiudo gli occhi mi apro all’infinito di Dio

Aveva sette anni il piccolo Oreste Benzi il giorno in cui la maestra Olga parlò di tre figure: lo scienziato, l’esploratore e il sacerdote. Tornò da scuola e disse a sua madre «io farò il prete»: non un’infatuazione ma un innamoramento che darà l’impronta a tutta la sua vita e farà di don Benzi – del quale si è aperto a Rimini il processo per la causa di beatificazione – una delle figure più straordinarie della Chiesa, un «infaticabile apostolo della carità», come lo definirà Benedetto XVI. Settimo di nove figli, a 12 anni entrò in seminario e per contribuire agli studi i suoi genitori chiesero l’elemosina. Sono esperienze come questa, per nulla avvilenti, anzi dense di dignità e amore, a formare il futuro sacerdote, che del sacrificio paterno dirà: «Questo fatto mi ha aiutato molto in seguito...». Se dalla madre Rosa apprese la forza dirompente della preghiera, dal padre Achille ereditò l’amore per i piccoli, parola che racchiudeva tutte le emarginazioni. Il primo dei piccoli era proprio quel padre: una sera tornò a casa e raccontò alla famiglia di aver aiutato un proprietario terriero a disincagliare la sua auto. Il ricco gli aveva dato una mancia di due lire e soprattutto "po u’ma stret la mena!", diceva incredulo, «poi mi ha stretto la mano». A suo figlio invece strinse il cuore: «Mio padre apparteneva a quella categoria di persone che reputano di non valere nulla, che chiede quasi scusa di esistere – racconterà don Oreste –. Quando io incontro il povero, l’ultimo, il disperato, quelli che sono alla stazione, sul marciapiede, in me si rifà presente quella immagine di mio papà». Non dormiva mai più di tre ore per notte, per non perderne nemmeno uno. È stato il prete delle vere rivoluzioni sociali, tutte condotte da dentro la Chiesa, armato di tonaca e Vangelo. Negli anni ’60 la sua battaglia perché i disabili non venissero nascosti come una vergogna ma fossero accettati negli alberghi, a scuola e al lavoro suscitò proteste e serrate. Il “suo” ’68 fu incendiario nei fatti: in quell’anno fondò la Comunità Papa Giovanni XXIII, oggi diffusa nel mondo, e divenne parroco della “Resurrezione” nel quartiere più desolato della periferia riminese, quella Grotta Rossa dove ieri si celebrava l’apertura del processo di beatificazione e che per 32 anni divenne la sua casa. «Quanti giovani vecchi ho visto nella mia vita», diceva dell’altro ’68, quello delle ideologie senza fatti, «incendiari al liceo, ma poi al primo salario, entrati nelle stanze del comando, tutti pompieri. Il loro dorso diventava flessibile, dove si poteva fare carriera. Perché? Perché la loro rivoluzione era contro, non per». Il dorso don Oreste non lo ha mai piegato davanti ai potenti, soltanto per chinarsi e raccogliere il povero, il barbone, la prostituta, il drogato. Contro "tutte" le guerre, ha combattuto accanto ai primi obiettori di coscienza per la nonviolenza così come al fianco di migliaia di bambini destinati all’aborto, oggi tutti suoi figli. Quando le loro madri tornavano a trovarlo col bimbo in braccio, lo guardava ridendo: "la t’è nde bin", ti è andata bene! «L’uomo non è il suo errore», ha rivelato ai carcerati, convincendoli che ricominciare si può. «Nessuna donna nasce prostituta», ha detto prendendone per mano 7mila e salvandole dalla schiavitù. E poi anziani soli, persone malate, zingari, immigrati, sbandati, drogati, alcolizzati... Erano in diecimila al suo funerale nel 2007, tutti graziati dall’«incontro simpatico con Cristo» (sim-patia, in greco consonanza), tutti con la luce negli occhi e un amore palpabile nel cuore. La sua intuizione più geniale fu la famiglia come terapia contro ogni solitudine e sconfitta: «Date una famiglia a chi non ce l’ha», disse ai suoi, e centinaia di giovani sposi accanto ai propri figli oggi ne accolgono sette, otto disabili gravissimi, quelli che nessuno vuole. Ciò che colpisce è la gioia semplice con cui lo fanno. «La Papa Giovanni è una Comunità di gente che è totalmente in simpatia con Cristo, per cui ha il sorriso sul volto – spiegò –. Quando arrivano i disperati, in ognuno di loro vede Gesù, quindi viene fuori una Comunità che è una sinfonia, la sinfonia di Dio». La notte del 25 settembre del 2007 uscì dalla sua Grotta Rossa e bussò alla Capanna di Betlemme, la prima delle strutture per senzatetto: «Eccomi, sono un barbone». Morirà poco dopo, nella notte tra i Santi e i Morti, all’improvviso, dopo una cena al ristorante con gli amici più cari (fatto mai avvenuto prima) e dopo aver vergato un’ultima profetica meditazione: «Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra la gente dirà: è morto. In realtà la morte non esiste... appena chiudo gli occhi mi apro all’infinito di Dio».

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