venerdì 9 maggio 2014

4 DOMENICA DI PASQUA ANNO A 11 MAGGIO 2014


Vangelo

Giovanni 9,1-41
[da L’Evangelo come mi è stato rivelato, cap. 510 e 518, 2-5]
Gesù esce insieme ai suoi apostoli e a Giuseppe di Sefori, diretto alla sinagoga. […] Giuda di Keriot gli richiama l’attenzione su un giovane, che procede verso di loro toccheggiando il muro con un bastone, alzando il volto privo di occhi verso l’alto, nell’andatura caratteristica dei ciechi. Le vesti sono povere, sebbene pulite, e deve essere persona nota a molti di Gerusalemme, perché più di uno lo addita e alcuni vanno a lui dicendo: “Uomo, oggi hai sbagliato la strada. Le vie del Moria sono tutte superate. Già sei in Bezeta”.
“Non chiedo elemosina di denaro, oggi”, risponde con un sorriso il cieco e procede sempre con quel sorriso verso il nord della città.
“Maestro, osservalo. Ha le palpebre saldate. Anzi direi che non ha palpebre. La fronte si unisce alle guance senza incavo alcuno, e sembra che sotto non siano le palle degli occhi. È nato così l’infelice. E così morrà, senza aver visto una volta la luce del sole, né il volto dell’uomo. Ora dimmi, Maestro. Per essere così punito, certo ha peccato. Ma se è cieco nato, come certamente è, come può aver peccato prima di nascere? Avranno forse peccato i suoi parenti e Dio li ha puniti facendolo nascere in tal modo?”.
[…].
Gesù risponde, e si sentono nitidamente le parole nel silenzio che si è fatto: “Non ha peccato né lui né i suoi parenti più di quanto pecchi ogni uomo e forse anche meno. Perché povertà è sovente freno al peccare. Ma egli è nato così perché ancora una volta siano manifeste in lui le potenze e le opere di Dio. Io sono la Luce venuta nel mondo perché quelli del mondo, che hanno dimenticato Iddio o smarrito la sua effigie spirituale, vedano e ricordino, e perché quelli che cercano Dio, o di Lui già sono, siano confermati nella fede e nell’amore. Il Padre mi ha mandato perché nel giorno che ancora è concesso ad Israele Io completi la conoscenza di Dio in Israele e nel mondo. Ecco dunque che Io debbo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, a testimoniare che Io posso ciò che Egli può, perché sono Uno con Lui. E il mondo sappia e veda che il Figlio non è dissimile dal Padre, e creda in Me per ciò che Io sono. Dopo verrà la notte nella quale non si può lavorare, la tenebra, e chi non si sarà scolpito il mio segno e la fede in Me non potrà più farlo nelle tenebre e nella confusione, dolore, desolazione e rovina che copriranno questi luoghi e sbalordiranno gli spiriti con gli orgasmi degli affanni. Ma finché Io sono nel mondo, Io sono Luce e Testimonianza, Parola, Via e Vita, Sapienza, Potenza e Misericordia. Va’, dunque, e raggiungi il cieco nato e portamelo qui”.
“Va’ tu, Andrea. Io voglio restare qui e vedere ciò che fa il Maestro”, risponde Giuda indicando Gesù, che si è chinato verso la via polverosa, ha sputato in un mucchietto di terriccio e col dito sta stemperando la polvere nella saliva formando una pallina di fango e […] se la spalma sui due indici restando così, con le mani come le tengono i sacerdoti nella S. Messa, al Vangelo o all’Epistola. Però Giuda si ritira dal suo posto dicendo a Matteo e Pietro: “Venite qui, voi che avete poca statura, e vedrete meglio”. E si mette dietro a tutti, quasi celato dai figli d’Alfeo e da Bartolomeo, che sono alti.
Andrea torna tenendo per mano il cieco, che si affanna a dire: “Non voglio denaro. Lasciami andare. So dove è quello chiamato Gesù. E vado per chiedere…”.
“Questo è Gesù, questo che ti è davanti”, dice Andrea fermandosi davanti al Maestro.
Gesù, contrariamente al solito, non chiede nulla all’uomo. Subito gli stende il poco fango, che ha sugli indici, sulle palpebre chiuse e gli ordina: “Ed ora va’, il più sollecito che puoi, alla cisterna di Siloe, senza fermarti a parlare con nessuno”.
Il cieco, col volto impiastricciato di fango, resta un attimo perplesso e apre le labbra per parlare. Poi le chiude e ubbidisce. I primi passi sono lenti, come di chi è pensieroso oppure deluso. Poi affretta il passo, rasentando col bastoncello il muro, sempre più lesto, lesto quanto lo può un cieco, forse più, come se si sentisse guidato…
I due gerosolimitani ridono sarcastici scrollando il capo e se ne vanno. Giuseppe d’Arimatea, e mi stupisce il fatto, li segue senza neppure salutare il Maestro, tornando sui suoi passi, ossia verso il Tempio, mentre da quella stessa direzione veniva. Così tanto il cieco, come i due, come Giuseppe d’Arimatea, vanno verso il sud della città, mentre Gesù piega verso occidente e lo perdo di vista, perché il volere del Signore mi fa seguire il cieco e quelli che lo seguono.
Superata Bezeta, entrano tutti nella valle che è fra il Moria e Sion - mi sembra di averla sentita altre volte chiamare Tiropeo - la percorrono tutta fino ad Ofel, lo costeggiano, escono sulla via che va alla fonte di Siloe, sempre stando con quest’ordine: per primo il cieco, che deve essere conosciuto in quella parte popolana, poi i due, ultimo, a qualche distanza, Giuseppe d’Arimatea.
Giuseppe si ferma presso una casetta meschina, seminascosto da una siepe di bosso, che sporge contornando l’orticello della povera casa. Ma i due vanno proprio vicino alla fonte e osservano il cieco, che si accosta cauto al vasto bacino e, tastando il muro umido, spenzola dentro alla cisterna una mano e la trae gocciante d’acqua e se ne lava gli occhi, una, due, tre volte. Alla terza preme sul viso anche l’altra mano, lasciando cadere il bastone e gettando un grido come di dolore.
Poi scosta lentamente le mani e il suo primo grido di pena si muta in un urlo di gioia: “Oh! Altissimo! Io vedo!”, e si getta a terra come vinto dall’emozione, le mani messe a parare gli occhi, strette alle tempie, per ansia di vedere, per sofferenza di luce, e ripete: “Vedo! Vedo! Questa è dunque la terra! Questa la luce! Questa l’erba che conoscevo solo per la sua frescura…”. Si alza e stando curvo, come uno che porta un peso, il suo peso di gioia, va al ruscello che porta via il soprappiù dell’acqua e lo guarda scorrere scintillante e ridarello, e mormora: “E questa è l’acqua… Ecco! Così la sentivo fra le dita (vi immerge la mano) fredda e che non si tiene, ma non ti conoscevo… Ah! Bella! Bella! Come è tutto bello!”. Alza il viso e vede un albero… ci va vicino, lo tocca, stende una mano, attira a sé un rametto, lo guarda e ride, ride, e fa solecchio, e guarda il cielo, il sole, e due lacrime scendono dalle vergini palpebre aperte a contemplare il mondo… E abbassa gli occhi sull’erba dove un fiore ondula sullo stelo, e vede se stesso riflesso nell’acqua del ruscello, e si guarda e dice: “Così io sono!”, e osserva stupito una tortora venuta a bere poco più là, e una capretta che strappa le ultime foglie di un rosaio selvatico, e una donna che viene verso la fonte con un figliolino sul seno. E quella donna gli ricorda sua madre, la sua madre dallo sconosciuto volto, e alzando le braccia al cielo grida: “Te benedetto, Altissimo, per la luce, per la madre, e per Gesù!”, e corre via lasciando a terra il suo ormai inutile bastone…
I due non hanno atteso di vedere tutto questo. Appena visto che l’uomo ci vedeva, sono corsi via verso la città. Giuseppe invece resta fino alla fine e, quando il cieco non più cieco gli sfreccia davanti entrando nel dedalo di viuzze del popolano borgo di Ofel, lascia a sua volta il suo posto e torna sui suoi passi, verso la città, molto pensieroso…
Il borgo di Ofel, sempre rumoroso, è ora addirittura in subbuglio. Chi corre a destra, chi a sinistra. Domande, risposte.
“Ma vi sarete sbagliati con un altro…”.
“No, ti dico. Gli ho parlato dicendo: “Ma sei proprio tu, Sidonia detto Bartolmai?”, e lui mi ha detto: “Lo sono”. Volevo chiedergli come fu, ma è corso via”.
“Dove è ora?”.
“Dalla madre, certamente”.
“Chi? Chi l’ha visto?”, chiedono nuovi accorrenti.
“Io, io”, dicono in diversi rispondendo.
“Ma come avvenne?”.
“…L’ho visto correre senza bastone con due occhi nel volto e ho detto: ‘Guarda! Così sarebbe Bartolmai se…’”.
“Ti dico che tremo tutta. Entrando ha gridato: ‘Madre, io ti vedo!’”.
“Una grande gioia per i parenti. Ora potrà aiutare il padre e guadagnare il suo cibo…”.
“Quella povera donna! Si è sentita male dalla gioia. Oh! una cosa! una cosa! Io ero andata a farmi dare un po’ di sale e…”.
“Corriamo a sentire da lui…”.
Giuseppe d’Arimatea si trova preso in mezzo a questo baccano e, non so se per curiosità o se per spirito di imitazione, segue la corrente e va a finire in un vicoletto cieco, che se proseguisse andrebbe al Cedron, dove la folla si accalca soverchiando col suo parlare il fruscio delle acque del torrente, ingrossato dalle piogge di autunno. E Giuseppe vi arriva quando, da un altro vicolo che sbocca in questo, vengono i due di prima con altri tre: uno scriba, un sacerdote e un altro che non identifico alla veste. Essi si fanno largo con prepotenza e cercano entrare nella casa stipata di gente.
La casa è fatta di una vasta cucina nera come il catrame, con un angolo tagliato fuori da un rustico assito, oltre il quale è un giaciglio e una porta che dà in un’altra stanza con un letto più grande. Una porta, aperta nella parete opposta, mostra un orticello di pochi metri quadri. Ed è tutto.
Il cieco guarito parla addossato al tavolo, rispondendo a chi lo interroga, tutta gente povera come lui, popolo minuto di Gerusalemme, di questo borgo, che è forse il più povero di tutti. Sua madre, ritta vicino a lui, lo guarda e piange asciugandosi gli occhi nel suo velo. Il padre, un uomo sciupato dal lavoro, si stropiccia la barba con la mano scossa da un tremito. Entrare nella casa è impossibile anche alla prepotenza giudea e dottorale, e i cinque devono ascoltare da fuori le parole del guarito.
“Come mi si sono aperti? Quell’uomo che si chiama Gesù mi ha sporcato gli occhi con della terra bagnata e mi ha detto: ‘Va’ a lavarti alla fonte di Siloe’. Ci sono andato, mi sono lavato e si sono aperti gli occhi e ho visto”.
“Ma come hai fatto a trovare il Rabbi? Dicevi sempre che eri disgraziato perché mai lo incontravi, neppure quando passava sempre di qui per andare da Giona al Getsemani. E oggi, adesso che non si sa mai dove sia…”.
“Eh! Ieri sera è venuto un suo discepolo e mi ha dato due monete dicendo: ‘Perché non cerchi di vedere?’. Gli ho detto: ‘Ho cercato. Ma non trovo mai quel Gesù che fa i miracoli. Lo cerco da quando ha guarito Annalia, del mio stesso borgo, ma se vado qua Egli è là…’, e lui mi ha detto: ‘Io sono un suo apostolo e ciò che io voglio Egli fa. Vieni domani in Bezeta e cerca la casa di Giuseppe il galileo, quello del pesce secco, Giuseppe di Sefori, presso la porta di Erode e l’arco della piazza, dalla parte d’oriente, e vedrai che prima o poi Egli passa di là o entra nella casa ed io ti accennerò al Maestro’. Ho detto: ‘Ma domani è sabato’. Volevo dire che Egli non farebbe nulla in sabato. Mi ha detto: ‘Se vuoi guarire è il giorno, perché dopo si lascia la città, né sai se lo potrai più incontrare’. Io ho detto ancora: ‘So che lo perseguitano. Ho sentito dalle porte della cinta del Tempio, dove vado a mendicare. E perciò dico che ora che lo perseguitano così, meno ancora vorrà essere perseguitato e non mi guarirà in sabato’. E lui: ‘Fa’ ciò che ti dico e in sabato tu vedrai il sole’. E io sono andato. Chi non sarebbe andato? Se lo dice un suo apostolo! Mi ha detto anche: ‘Io sono quello che Egli più ascolta, e vengo apposta perché mi fai pietà e perché voglio che splenda il suo potere dopo che lo hanno vilipeso. Tu, cieco nato, lo farai risplendere. So ciò che dico. Vieni e vedrai’. E io sono andato, e non ero ancora arrivato alla casa di Giuseppe che un uomo mi ha preso per mano, ma alla voce non era quello di ieri, e mi ha detto: ‘Vieni con me, fratello’, e io non volevo andare, credevo mi volesse dare pane e denaro, vesti forse, e gli dicevo di lasciarmi andare perché avevo saputo dove trovare quello chiamato Gesù, e l’uomo mi ha detto: ‘Questo è Gesù, questo che ti è davanti’. Ma io non ho visto nulla, perché ero cieco. Ho sentito due dita coperte di terra bagnata toccarmi qui e qui, e una voce dire: ‘Va’ sollecito a Siloe e lavati e non parlare con alcuno’, e l’ho fatto. Ma ero sconfortato perché speravo vederci subito, e quasi ho creduto che fosse uno scherzo di giovani senza cuore, e non volevo quasi andare. Ma ho sentito dentro una specie di voce dire: ‘Spera e ubbidisci’, e allora sono andato alla fonte e mi sono lavato e ho visto”. E il giovane si ferma estatico a ripensare alla gioia del primo vedere…
“Fate uscire l’uomo. Lo vogliamo interrogare”, gridano i cinque.
Il giovane si fa largo ed esce sulla soglia.
“Dove è Colui che ti ha guarito?”.
“Io non lo so”, dice il giovane, al quale un amico ha sussurrato: “Sono scribi e sacerdoti”.
“Come non lo sai? Dicevi ora che lo sapevi. Non mentire ai dottori della Legge e al sacerdote! Guai a chi cerca ingannare i magistrati del popolo!”.
“Non inganno nessuno. Quel discepolo mi ha detto: ‘È in quella casa’ ed era vero, perché c’ero vicino quando sono stato preso e condotto da Lui. Ma dove ora sia non so. Il discepolo mi ha detto che vanno via. Potrebbe già essere uscito dalle porte”.
“Ma dove andava?”.
“E che ne so io?! Andrà in Galilea… Per come viene trattato qui!…”.
“Stolto e irrispettoso! Bada a come parli, feccia del popolo! Ti ho detto: per che via si dirigeva?”.
“Ma come volete che lo sappia se ero cieco? Può un cieco dire dove va un altro?”.
“Sta bene. Seguici”.
“Dove volete portarmi?”.
“Dai capi dei farisei”.
“Perché? Che c’entrano essi con me? Mi hanno forse guarito, essi, che io li debba ringraziare? Quando ero cieco e mendicavo, le mie mani non sentivano mai le loro monete, il mio udito mai la loro parola di pietà, e il mio cuore mai il loro amore. Che devo dire loro? Non ho che uno al quale dire “grazie”, dopo mio padre e mia madre che per tanti anni mi hanno amato infelice. Ed è questo Gesù che mi ha guarito amandomi col suo cuore, come i miei parenti col loro. Io non vengo dai farisei. Sto con mia madre e mio padre, a godere di vedere il loro volto ed essi i miei occhi nati ora, dopo tante primavere da quella in cui nacqui ma non vidi la luce”.
“Non tante parole. Vieni e seguici”.
“Che no! Non vengo! Avete voi forse mai asciugato una lacrima o un sudore a mia madre avvilita della mia sventura, a mio padre sfinito dal lavoro? Ora io lo posso fare col mio aspetto, e dovrei lasciarli e seguirvi?”.
“Te lo ordiniamo. Non sei tu che ordini, ma il Tempio e i capi del popolo. Se la superbia di esser guarito ti rende ottusa la mente a ricordare che noi comandiamo, noi te lo ricordiamo. Avanti! Cammina!”.
“Ma perché io devo venire? Che volete da me?”.
“Che tu deponga della cosa. È sabato. Opera compiuta nel sa-bato. Va registrata per il peccato. Peccato tuo e di quel satana”.
“Satana voi! Peccato voi! E io dovrei venire a deporre contro chi mi ha beneficato? Voi siete ebbri! Al Tempio verrò. A benedire il Signore. E non più di così. Nell’ombra della cecità sono stato per tanti anni. Ma le palpebre chiuse non hanno fatto tenebra che agli occhi. L’intelletto è stato in luce lo stesso, in grazia di Dio, e mi dice che non devo danneggiare l’unico Santo che è in Israele”.
“Uomo, basta! Non sai che vi sono castighi per chi si oppone ai magistrati?”.
“So niente io. Qui sono e qui sto. E non vi conviene nuocermi. Vedete che tutto l’Ofel è dalla mia parte”.
“Sì! Sì! Lasciatelo! Sciacalli! È protetto da Dio. Non lo toccate! Dio è coi poveri! Dio è con noi, affamatori e ipocriti!”. La gente urla e minaccia con una di quelle spontanee manifestazioni popolari che sono le esplosioni di sdegno degli umili verso chi li preme, o di amore per chi li protegge. E grida: “Guai a voi se colpite il nostro Salvatore! L’Amico dei poveri! Il Messia tre volte santo. Guai a voi! Non si è temuto le ire di Erode, non quelle dei Presidi, quando si è voluto. Non temiamo le vostre, vecchie iene dalle mascelle sdentate! Sciacalli dalle unghie mozzate! Inutili prepotenti! Roma non vuole i tumulti e non opprime il Rabbi perché Egli è pace. Ma voi vi conosce. Andate via! Via dai quartieri di quelli che opprimete con decime più forti delle loro forze, ad aver denaro per saziare le vostre fami e a compiere i turpi mercati. Discendenti di Giasone! Di Simone! Torturatori dei veri Eleazari, dei santi Onia. Conculcatori dei profeti! Via! Via!”. Il tumulto si accende sempre più fiero.
Giuseppe d’Arimatea, schiacciato contro un muretto, sino allora spettatore attento ma inattivo dei fatti, con un’agilità insospettabile in un vecchio, e per di più così infagottato in vesti e mantelli, salta in piedi sul muricciolo e urla: “Silenzio, cittadini. E ascoltate Giuseppe l’Anziano!”.
Una, due, dieci teste si volgono in direzione del grido. Vedono Giuseppe. Gridano il suo nome. Deve essere molto noto il d’Arimatea e deve godere il favore del popolo, perché le urla di sdegno si mutano in urla di gioia: “C’è Giuseppe l’Anziano! Viva lui! Pace e lunga vita al giusto! Pace e benedizione al benefattore dei miseri! Silenzio, ché parla Giuseppe! Silenzio!”.
Il silenzio si fa a fatica, e si ode per qualche minuto il frusciare del Cedron oltre il vicolo. Tutte le teste sono rivolte a Giuseppe, avendo tutti dimenticato l’oggetto che prima li faceva volgere in opposta direzione: i cinque disgraziati e improvvidi che hanno suscitato il tumulto.
“Cittadini di Gerusalemme, uomini di Ofel, perché volete lasciarvi accecare dal sospetto e dall’ira? Perché mancare al rispetto e alle consuetudini, voi sempre così fedeli alle leggi dei padri? Di che temete? Forse che il Tempio sia un Moloch che non rende ciò che accoglie? Forse che i giudici vostri siano tutti ciechi, più del vostro amico, ciechi nel cuore e sordi nella giustizia? Non è forse usanza che un fatto prodigioso sia deposto, scritto e conservato da chi di dovere per le cronache di Israele? Lasciate dunque che, anche per onore del Rabbi che amate, il miracolato salga a deporre l’opera da Esso compiuta. Ancora titubate? Ebbene, io mi fo mallevadore che nulla avverrà di male a Bartolmai. E voi sapete che io non mento. Come un figlio a me caro lo scorterò lassù, e ve lo ricondurrò qui poi. A me credete. E del sabato non fate un giorno di peccato con la ribellione ai vostri capi”.
“Dice giusto! Non si deve. Possiamo credergli. Egli è un giusto. Nelle buone deliberazioni del Sinedrio è sempre la sua voce”. La gente si scambia le sue idee e finisce per gridare: “A te sì. Il nostro amico a te lo affidiamo!”. E rivolta al giovane: “Vieni! Non temere. Con Giuseppe d’Arimatea sei sicuro come e più che con tuo padre”, e fa largo perché il giovane possa andare da Giuseppe, che è sceso dal suo pulpito improvvisato, e mentre passa gli dicono: “Veniamo anche noi. Non temere!”.
Giuseppe, nelle sue ricche vesti di splendida lana, pone una mano sulla spalla del giovane e si mette in cammino. La tunica bigia e consunta del giovane, il suo piccolo mantello, strusciano contro l’ampia veste rosso cupa e il pomposo manto ancor più scuro del vecchio sinedrista. Dietro, i cinque e, dopo questi, molti e molti di Ofel…
Eccoli al Tempio, dopo aver traversato le vie centrali attirando l’attenzione di molti, che si additano il già cieco dicendo: “Ma è colui che mendicava cieco! E ora ha gli occhi! Ma forse è uno che gli somiglia! No. È lui certo e lo conducono al Tempio. Andiamo a sentire”, e il codazzo aumenta sempre più, sinché le mura del Tempio li inghiottono tutti.
Giuseppe guida il giovane in una sala, non è il Sinedrio, dove sono molti farisei e scribi. Giuseppe entra e con lui entra Bartolmai e i cinque. I popolani di Ofel vengono respinti nel cortile.
“Ecco l’uomo. Io stesso ve l’ho condotto, avendo, non visto, assistito al suo incontro col Rabbi e alla sua guarigione. E vi posso dire che fu del tutto casuale da parte del Rabbi. L’uomo, lo sentirete anche voi, fu condotto, o meglio, invitato ad andare dove era il Rabbi, da Giuda di Keriot, che voi conoscete. E io ho sentito, e anche questi due con me hanno sentito perché erano presenti, come fu Giuda a tentare Gesù di Nazaret al miracolo. Or io qui depongo che, se uno vi è da punire, non è il cieco, né il Rabbi, ma l’uomo di Keriot, che - Dio mi vede se mento nel dire ciò che il mio intelletto pensa - è il solo autore del fatto come colui che lo ha con apposita manovra provocato. Ho detto”.
“Il tuo dire non annulla la colpa del Rabbi. Se un suo discepolo pecca non deve peccare il Maestro. Ed Egli ha peccato guarendo in sabato. Ha compiuto opera servile”.
“Sputare in terra non è fare opera servile. E toccare gli occhi di un altro non è fare opera servile. Io pure tocco l’uomo e non credo di peccare”.
“Egli ha fatto miracolo in sabato. In questo sta il peccato”.
“Onorare il sabato con un miracolo è grazia di Dio e sua bontà. È il suo giorno. E non potrà l’Onnipotente celebrarlo con un miracolo che faccia splendere la sua potenza?”.
“Non siamo qui per ascoltare te. Tu non sei imputato. È l’uomo che vogliamo interrogare. Rispondi, tu. Come hai ottenuto la vista?”.
“L’ho detto. E questi mi hanno sentito. Il discepolo di quel Gesù mi ha detto ieri: “Vieni e io ti farò guarire”. E sono venuto. E mi sono sentito mettere del fango qui e una voce dirmi di andare a Siloe e lavarmi. E l’ho fatto e ci vedo”.
“Ma sai tu chi ti ha guarito?”.
“Certo che lo so! Gesù. Ve l’ho detto”.
“Ma sai di preciso chi è Gesù?”.
“Non so niente io. Sono un povero e un ignorante. E fino a poco fa ero cieco. Questo so. E so che Lui mi ha guarito. E se lo ha potuto fare, certo Dio è con Lui”.
“Non bestemmiare! Non può Dio essere con chi non osserva il sabato”, urlano alcuni.
Ma Giuseppe e i farisei Eleazaro, Giovanni e Gioacchino osservano: “Neppure però può un peccatore fare tali prodigi”.
“Siete sedotti voi pure, forse, da quel posseduto?”.
“No. Siamo giusti. E diciamo che, se Dio non può essere con chi opera in sabato, neppure può l’uomo senza Dio fare che un cieco nato veda”, dice calmo Eleazaro. E gli altri annuiscono.
“E il demonio dove lo mettete?”, urlano bisbetici i malevoli.
“Non posso credere, e neppur voi lo credete, che il demonio possa far opera capace di far lodare il Signore”, dice il fariseo Giovanni.
“E chi lo loda?”.
“Il giovane, i suoi parenti, tutto Ofel, ed io con loro, e con me tutti quelli che giusti sono e santamente timorati di Dio”, ribatte Giuseppe.
I malevoli, scornati, non sapendo cosa obbiettare, investono Sidonia detto Bartolmai: “Tu che cosa dici di colui che ti ha aperto gli occhi?”.
“Per me è un profeta. E più grande di Elia col figlio della vedova di Sarepta. Perché Elia fece tornare l’anima nel fanciullo. Ma questo Gesù mi ha dato ciò che non avevo mai perso perché non l’avevo mai avuto: la vista. E se mi ha fatto gli occhi così in un baleno e con nulla, salvo un po’ di fango, mentre in nove mesi mia madre con carne e sangue non era riuscita a farmeli, deve essere grande come Dio, che col fango ha fatto l’uomo”.
“Va’ via! Va’ via! Bestemmiatore! Bugiardo! Merce d’acquisto!”, e cacciano fuori l’uomo come fosse un dannato.
“L’uomo mente. Non può esser vero. Tutti lo possono dire che chi è nato cieco non può guarire. Sarà uno che gli somiglia a Bartolmai e che il Nazareno ha preparato… oppure… Bartolmai non è mai stato cieco”.
Davanti a questa sorprendente affermazione Giuseppe d’Arimatea scatta: “Che l’odio acciechi si sa dal tempo di Caino. Ma che faccia stolti non si sapeva ancora. Vi pare che uno giunga alla maturità della gioventù fingendosi cieco per… attendere un presumibile evento strepitoso e molto futuro? O che i parenti di Bartolmai non conoscano il figlio o si prestino a questa menzogna?”.
“Il denaro può tutto. Ed essi sono poveri”.
“Il Nazareno lo è più di loro”.
“Tu menti! Somme da satrapo gli passano fra le mani”.
“Ma non vi si fermano un istante. Sono dei poveri quelle somme. Usate per il bene, non per la menzogna”.
“Come lo difendi! E sei uno degli Anziani!”.
“Giuseppe ha ragione. La verità va detta quale che sia la carica che l’uomo ricopre”, dice Eleazaro.
“Correte a richiamare il cieco. E portatelo di nuovo qui. E altri vadano dai parenti e li portino qui”, urla Elchia spalancando la porta e ordinando ad alcuni in attesa lì fuori. E la sua bocca è quasi coperta di bava tanto l’ira lo strozza.
Chi corre di qua, chi di là. Il primo che torna è Sidonia detto Bartolmai, stupito e seccato. Lo ficcano in un angolo guardandolo come una muta di cani guata una selvaggina… Poi, dopo un bel po’, ecco venire i genitori di lui, circondati da folla.
“Venite dentro voi. E gli altri fuori!”.
I due entrano spaventati e vedono il figlio là in fondo, sano, ma in stato di arresto. La madre geme: “Figlio mio! E doveva esser giorno di festa per noi!”.
“Ascoltate noi. È vostro figlio quell’uomo?”, interroga rudemente un fariseo.
“Sì che è nostro figlio! E chi volete che sia se non lui?”.
“Ne siete proprio sicuri?”.
Il padre e la madre sono tanto sbalorditi della domanda che prima di rispondere si guardano.
“Rispondete!”.
“Nobile fariseo, e puoi pensare che un padre e una madre si possano ingannare sulla loro creatura?”, dice umilmente il padre.
“Ma… potete giurare che… sì, che per nessuna somma vi fu chiesto di dire che questo è vostro figlio mentre è uno che gli somiglia?”.
“Chiesto di dire? E da chi mai? Giurare? Ma mille volte, e per l’altare e il Nome di Dio, se vuoi!”. È così sicura l’affermazione che smonterebbe anche il più ostinato.
Ma i farisei non si smontano! Chiedono: “Ma vostro figlio non era nato cieco?”.
“Sì. Così era nato. A palpebre chiuse e, sotto, il vuoto, il nulla…”.
“E come mai ora ci vede, ha gli occhi e le palpebre aperte su essi? Non vorrete già dire che gli occhi possono nascere così, come fiori a primavera, e che una palpebra si schiuda, come giusto fa il calice di un fiore!…”, dice un altro fariseo e ride sarcastico.
“Sappiamo che questo uomo è veramente nostro figlio da quasi trent’anni e che è nato cieco, ma come ora ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi. Del resto, chiedetene a lui. Non è ebete e non è fanciullo. Ha i suoi buoni anni. Interrogatelo e vi risponderà”.
“Voi mentite. Egli, in casa vostra, ha narrato come fu guarito e da chi. Perché dite che non sapete?”, urla uno dei due che avevano sempre seguito il cieco.
“Eravamo tanto sbalorditi dalla sorpresa che non abbiamo sentito”, si scusano i due.
I farisei si volgono a Sidonia detto Bartolmai: “Vieni avanti tu. E da’ pur gloria a Dio se ti riesce! Non sai che chi ti ha toccato gli occhi è un peccatore? Non lo sai? Ebbene, sappilo. Noi te lo diciamo, che lo sappiamo”.
“Mah! Sarà come voi dite. Io, se sia peccatore, non lo so. So soltanto che prima ero cieco e ora ci vedo, e ben chiaro”.
“Ma cosa ti fece? Come ti aprì gli occhi?”.
“Ve l’ho già detto e voi mi avete ascoltato. Ora volete sentire di nuovo? Perché? Forse volete farvi discepoli di Lui?”.
“Stolto! Sii tu discepolo di quell’uomo. Noi siamo discepoli di Mosè. E di Mosè sappiamo ogni cosa e che Dio gli ha parlato. Ma di quest’uomo nulla sappiamo, né di dove venga né chi sia, e nessun prodigio del Cielo lo indica per profeta”.
“Qui appunto sta il meraviglioso! Che voi non sapete di dove Egli sia e dite che nessun prodigio lo indica per giusto. Ma Egli mi ha aperto gli occhi e nessuno di noi d’Israele aveva mai potuto farlo, neppur l’amore di una madre e i sacrifici del padre mio. Una cosa però sappiamo tutti, tanto io che voi, ed è che Dio non esaudisce il peccatore, ma colui che ha timore di Dio e fa la sua volontà. Non si è mai sentito che nessuno in tutto il mondo abbia potuto aprire gli occhi ad un cieco nato, ma questo Gesù lo ha fatto. Se Egli non fosse da Dio, non lo avrebbe potuto fare”.
“Sei nato nel peccato interamente, e deforme sei nello spirito come e più che non lo fosti nel corpo, e ti pretendi di insegnare a noi? Va’ via, maledetto aborto, e fatti satana col tuo seduttore. Via! Via tutti, plebe stolta e peccatrice!”, e buttano fuori figlio, padre e madre, come fossero tre lebbrosi.
I tre se ne vanno lesti, seguiti dagli amici. Ma, giunto fuori dalla cinta, Sidonia si volge e dice: “E state! E dite ciò che volete! Il vero è che io ci vedo e ne lodo Iddio. E satana voi sarete, non già il Buono che mi ha guarito”.
“Taci, figlio! Taci! Purché ciò non ci faccia del male!…”, geme la madre.
“Oh! madre mia! Ti ha avvelenato l’anima l’aria di quella sala, tu che nel mio dolore mi insegnavi a lodar Dio e che ora nella gioia non lo sai ringraziare e temi gli uomini? Se Dio mi ha amato tanto e ti ha amata tanto da darci il miracolo, non saprà difenderci da un pugno d’uomini?”.
“Il figlio ha ragione, donna. Andiamo alla sinagoga nostra a lodare il Signore, posto che dal Tempio ci hanno cacciato. E andiamoci lesti, prima che termini il sabato…”.
E, affrettando il passo, si sperdono nelle vie della valle.
[…] Gesù è già fuori dal Tempio e scende verso la strada che va verso Ofel, quando, all’incrocio con delle vie che salgono a Sion, si imbatte nel cieco nato, guarito da poco, che carico di ceste piene di mele odorose cammina tutto allegro, scherzando con altri giovani ugualmente carichi che vanno in senso opposto al suo.
Forse al giovane passerebbe inosservato l’incontro, dato che egli ignora il volto di Gesù e quello degli apostoli. Ma Gesù non ignora il volto del miracolato. E lo chiama. Sidonia detto Bartolmai si volge e guarda interrogativamente l’uomo alto e maestoso, nonostante sia vestito umilmente, che lo chiama a nome dirigendosi ad una vietta.
“Vieni qui”, ordina Gesù.
Il giovane si avvicina senza posare il suo carico, sogguarda Gesù e, credendolo uno desideroso di acquistare le mele, dice: “Il mio padrone le ha già vendute. Ma ne ha ancora, se vuoi. Sono belle e buone. Venute ieri dai pometi di Saron. E se ne comperi molte ne hai un forte sconto, perché…”.
Gesù sorride alzando la destra a porre freno alla parlantina del giovane. E dice: “Non ti ho chiamato per acquistare le mele, ma per rallegrarmi con te e benedire con te l’Altissimo che ti ha usato grazia”.
“Oh, sì! Io lo faccio di continuo, e per la luce che vedo e per il lavoro che posso fare, aiutando mio padre e mia madre, finalmente. Ho trovato un buon padrone. Non è ebreo, ma è buono. Gli ebrei non mi volevano per… perché sanno che sono stato cacciato dalla sinagoga”, dice il giovane posando al suolo le ceste.
“Ti hanno cacciato? Perché? Che hai fatto?”.
“Io niente. Te lo assicuro. Il Signore ha fatto. Egli in sabato mi ha fatto trovare quell’uomo che si dice sia il Messia, ed Egli mi ha guarito, come Tu vedi. E per questo mi hanno cacciato”.
“Allora Colui che ti ha guarito non ti ha fatto in tutto un buon servizio”, tenta Gesù.
“Non lo dire, uomo! È una bestemmia la tua! Prima di tutto mi ha mostrato che Dio mi ama, poi mi ha dato la vista… Tu non sai cosa è ‘vedere’, perché hai sempre visto. Ma uno che non aveva mai visto! Oh!… È… Sono tutte le cose insieme che si hanno con la vista. Io ti dico che quando ho visto, là presso Siloe, ho riso e pianto, ma di gioia, eh? Ho pianto come non avevo pianto nella sventura. Perché ho capito allora quanto essa era grande e quanto buono era l’Altissimo. E poi posso guadagnarmi la vita, e con lavoro decoroso. E poi… - questo è quello che più di tutto spero mi conceda il miracolo avuto - e poi spero poter incontrare l’uomo che si dice Messia e il suo discepolo che mi ha…”.
“E che faresti allora?”.
“Lo vorrei benedire. Lui e il suo discepolo. E vorrei dire al Maestro, che deve venire proprio da Dio, di prendermi per suo servo”.
“Come? Per causa sua sei all’anatema, con fatica trovi lavoro, puoi essere anche più punito, e vuoi servirlo? Non sai che sono perseguitati tutti coloro che seguono Colui che ti ha guarito?”.
“Eh! lo so! Ma Egli è il Figlio di Dio, così si dice fra noi. Per quanto quelli di lassù (e accenna al Tempio) non vogliono che si dica. E non merita lasciare tutto per servire Lui?”.
“Credi tu dunque nel Figlio di Dio e nella sua presenza in Palestina?”.
“Io lo credo. Ma vorrei conoscerlo per credere in Lui non solamente nell’intelletto ma con tutto me stesso. Se Tu sai chi è e dove si trova, dimmelo, perché io vada a Lui e lo veda, e creda completamente in Lui, e lo serva”.
“Lo hai veduto già, né c’è bisogno che tu vada a Lui. Quello che tu vedi in questo momento e che ti parla è il Figlio di Dio”.
Io non potrei asserirlo con piena sicurezza, ma mi è parso che nel dire queste parole Gesù abbia quasi avuto una brevissima trasfigurazione, divenendo bellissimo e direi splendente. Direi che, per premiare l’umile credente in Lui e confermarlo nella sua fede, abbia, per la durata di un baleno, svelato la sua bellezza futura, voglio dire quella che assumerà dopo la risurrezione e conserverà nel Cielo, la sua bellezza di creatura umana glorificata, di corpo glorificato e fuso all’inesprimibile bellezza della Perfezione che è sua. Un attimo, dico. Un baleno. Ma l’angolo semioscuro, dove si sono ridotti per parlare, sotto l’archivolto del vicolo, si illumina stranamente di una luminosità che si sprigiona da Gesù che, ripeto, si fa bellissimo.
Poi torna tutto come prima, meno il giovane che ora è a terra, col viso nella polvere, e che adora dicendo: “Io credo, Signore, mio Dio!”.
“Alzati. Io sono venuto nel mondo per portare la luce e la conoscenza di Dio e per provare gli uomini e giudicarli. Questo mio tempo è tempo di scelta, di elezione e di selezione. Io sono venuto perché i puri di cuore e d’intenzione, gli umili, i mansueti, gli amanti della giustizia, della misericordia, della pace, coloro che piangono e quelli che sanno dare alle diverse ricchezze il loro reale valore e preferire quelle spirituali alle ricchezze materiali, trovino ciò che il loro spirito anela, e quelli che erano ciechi, perché gli uomini hanno alzato muraglie spesse ad interdire la luce, ossia la conoscenza di Dio, vedano, e quelli che si credono veggenti divengano ciechi…”.
“Allora Tu odii molta parte degli uomini e non sei buono come dici di essere. Se lo fossi, cercheresti che tutti vedessero, e chi già vede non divenisse cieco”, interrompono alcuni farisei sopraggiunti dalla via principale e avvicinatisi con altri, cautamente, alle spalle del gruppo apostolico.
Gesù si volge e li guarda. Non è certo più trasfigurato in dolce bellezza, ora! È un Gesù ben severo quello che fissa sui suoi persecutori i suoi sguardi di zaffiro, e la sua voce non ha più la nota d’oro della letizia, ma è bronzea, e come suono di bronzo è incisiva e severa mentre risponde: “Non sono Io quello che voglio che non vedano la verità coloro che al presente la combattono. Ma sono essi stessi che alzano delle lastre davanti alle loro pupille per non vedere. E si fanno ciechi di loro libera volontà. E il Padre mi ha mandato perché la divisione avvenga e siano veramente noti i figli della Luce e quelli delle Tenebre, coloro che vogliono vedere e coloro che vogliono farsi ciechi”.
“Siamo forse anche noi fra questi ciechi?”.
“Se lo foste e cercaste di vedere, non ne avreste colpa. Ma è perché dite: “Noi ci vediamo”, e poi non volete vedere, che peccate. Il vostro peccato rimane perché non cercate di vedere pur essendo dei ciechi”.
“E cosa dobbiamo vedere?”.
“La Via, la Verità, la Vita. Un cieco nato, come era costui, col suo bastoncello può sempre trovare la porta della sua casa e girare in essa, perché conosce la sua casa. Ma, se fosse portato in altri luoghi, non potrebbe entrare dalla porta della nuova casa, perché non saprebbe dove si trova e darebbe di cozzo contro le muraglie.
Il tempo della nuova Legge è venuto. Tutto si rinnova e un mondo nuovo, un nuovo popolo, un nuovo regno sorgono. Ora quelli del tempo passato non conoscono tutto questo. Essi conoscono il loro tempo. Sono come dei ciechi portati in un nuovo paese dove è la casa regale del Padre, ma della quale non conoscono l’ubicazione. Io sono venuto per condurli ed introdurli in essa e perché vedano. Ma sono Io stesso la Porta per la quale si accede nella casa paterna, nel Regno di Dio, nella Luce, nella Via, nella Verità, nella Vita. […].
a cura di Claudia Vecchiarelli © Centro Editoriale Valtortiano

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