Con Amina sono diventata una seconda mamma di Paola
Bonzi
Squillo imperioso del telefono: «Ciao mamma Paola!». La voce simpatica di Amina mi giunge da Milano mentre tento di fare un po’ di vacanza al mare. Amina è una di quelle donne che, arrivate al Centro di Aiuto alla Vita decise a interrompere la gravidanza, per le strane alchimie dell’animo umano, portano avanti la maternità anche grazie al nostro progetto di aiuto. Era un luglio molto caldo, quella volta di tre anni fa, quando nella mia stanza entrò Amina, tutta avvolta in abiti neri e con tanto di velo. Non volle sedersi sul divano di fronte a me ma si costrinse sul pouf che sta vicino alla mia poltrona. Non riusciva a parlare, impedita da un raffreddore potente e dalle lacrime che quasi la soffocavano. Non faceva che piangere.
«Amina, bisognerà che ci parliamo, prima o poi, altrimenti potrò solo offrirle una intera scatola di fazzoletti». Seppi, così, che veniva da Casablanca dove era rimasta tutta la sua famiglia d’origine. Da circa cinque anni era in Italia e aveva già due figli, di quattro e due anni. Il marito si era cacciato in un guaio ed era agli arresti domiciliari. Vivevano tutti in casa della cognata ma, lei, proprio non riusciva ad andare d’accordo con questa sorella del marito. «Vivete tutti alle mie spalle. Tu», diceva rivolta ad Amina, «non riesci a portare a casa un euro. Sono stanca di voi tutti». Amina avvilita non riusciva a parlarle peggiorando notevolmente i rapporti. «Come posso, in una situazione di questo genere, dirle che sono incinta. Riesco solo a pensare di interrompere la gravidanza. Non ci possiamo spostare da quella casa, e poi …». Di solito non faccio domande durante la narrazione; quella volta però: «E poi che cosa?». «Da quando sono venuta in Italia non sono più tornata in Marocco. Mi manca tutto della mia Terra: il clima, la lingua, le tradizioni, il mio impiego, e poi … mia madre. Non riesco ad accettare la sua lontananza soprattutto durante le gravidanze. É stato così anche le altre volte, ma ora sento che mi sarebbe impossibile».
Ci guardiamo intensamente. Cosa si aspetta da me? A un certo punto mi ritrovo ad avere solo me stessa, addolorata per il suo dolore e per quella piccola vita che non arriverà a vedere la luce. Le dico di getto: «E una mamma italiana?». Mi mette gli occhi negli occhi. Di certo pensa che sono impazzita. Poi si asciuga qualche lacrima, si aggiusta, quasi sorride cercando di capire. «Lei», osa timorosa, «lei vorrebbe farmi da mamma?». La gravidanza andò avanti. Furono importanti i nostri aiuti economici ma ancora di più la relazione tra di noi. Ogni mese veniva al colloquio e, spesso, mi chiamava al telefono. Ricordo che una volta mi disse: «… e come stanno i fratelli?». Si riferiva chiaramente ai miei figli che lei non aveva mai conosciuto.
Il suo bambino nacque. Era un bellissimo bambino, non grasso, solo cicciottello e compatto. Di mano in mano qualcosa si metteva a posto, ma la situazione era sempre precaria. Ci chiamavamo al telefono e, davvero, avrei voluto avere la bacchetta magica. Joseph compì il suo primo anno e, purtroppo, anche gli aiuti del Cav ebbero fine. Inventavo scuse per farle arrivare qualche povera busta ma non se ne usciva. Pochi mesi fa, durante una delle nostre telefonate, le ho proposto di venire alla sede del Centro per provare a occuparsi delle pulizie. Amina, felice, cominciava a intravvedere una piccola luce. Oggi, al suo «ciao mamma Paola», il secondo dei suoi bambini si è fatto passare il telefono: «Ciao nonna, come stai? Voglio anch’io parlare con te e anche Fatima vuole salutarti».
Un senso di felicità mi pervade. I bambini hanno capito benissimo, dal saluto di Amina, che non sono la nonna del Marocco. Chiacchiero un po’ con questi nipotini che parlano un perfetto italiano, come la loro mamma del resto, e poi torno a parlare con Amina: «Voglio darti io la bella notizia. Aumenteranno le tue ore di lavoro e anche il tuo contratto diventerà definitivo. Contenta?». Con il sorriso nella voce: «Ti avevo telefonato», dice, «non solo per salutarti. Mi hanno chiamato per una sostituzione nel mese di agosto e volevo che la mia mamma lo sapesse. Adesso, tu, mi dai anche questa bella notizia. Non avrò di nuovo la preoccupazione per il rinnovo del permesso di soggiorno e i bambini avranno qualcosa di più. Già quest’anno ho potuto comprare per loro qualche piccola cosa per far festa il giorno di fine Ramadan. Erano molto allegri».
«Amina, ne sono felice. E cosa mi dici della bella notizia?». «Posso dire che la mia vita è cambiata completamente da quando ti ho incontrato. Ora lavoro anch’io per il Cav e, stai tranquilla, non ti farò mai fare brutta figura». Ridiamo. Facciamo progetti. «Vedi di riposarti», mi esorta, «voglio la mia mamma in forma». Baci telefonici. Virtuali, è vero, ma ne sento lo schiocco sulla guancia
Squillo imperioso del telefono: «Ciao mamma Paola!». La voce simpatica di Amina mi giunge da Milano mentre tento di fare un po’ di vacanza al mare. Amina è una di quelle donne che, arrivate al Centro di Aiuto alla Vita decise a interrompere la gravidanza, per le strane alchimie dell’animo umano, portano avanti la maternità anche grazie al nostro progetto di aiuto. Era un luglio molto caldo, quella volta di tre anni fa, quando nella mia stanza entrò Amina, tutta avvolta in abiti neri e con tanto di velo. Non volle sedersi sul divano di fronte a me ma si costrinse sul pouf che sta vicino alla mia poltrona. Non riusciva a parlare, impedita da un raffreddore potente e dalle lacrime che quasi la soffocavano. Non faceva che piangere.
«Amina, bisognerà che ci parliamo, prima o poi, altrimenti potrò solo offrirle una intera scatola di fazzoletti». Seppi, così, che veniva da Casablanca dove era rimasta tutta la sua famiglia d’origine. Da circa cinque anni era in Italia e aveva già due figli, di quattro e due anni. Il marito si era cacciato in un guaio ed era agli arresti domiciliari. Vivevano tutti in casa della cognata ma, lei, proprio non riusciva ad andare d’accordo con questa sorella del marito. «Vivete tutti alle mie spalle. Tu», diceva rivolta ad Amina, «non riesci a portare a casa un euro. Sono stanca di voi tutti». Amina avvilita non riusciva a parlarle peggiorando notevolmente i rapporti. «Come posso, in una situazione di questo genere, dirle che sono incinta. Riesco solo a pensare di interrompere la gravidanza. Non ci possiamo spostare da quella casa, e poi …». Di solito non faccio domande durante la narrazione; quella volta però: «E poi che cosa?». «Da quando sono venuta in Italia non sono più tornata in Marocco. Mi manca tutto della mia Terra: il clima, la lingua, le tradizioni, il mio impiego, e poi … mia madre. Non riesco ad accettare la sua lontananza soprattutto durante le gravidanze. É stato così anche le altre volte, ma ora sento che mi sarebbe impossibile».
Ci guardiamo intensamente. Cosa si aspetta da me? A un certo punto mi ritrovo ad avere solo me stessa, addolorata per il suo dolore e per quella piccola vita che non arriverà a vedere la luce. Le dico di getto: «E una mamma italiana?». Mi mette gli occhi negli occhi. Di certo pensa che sono impazzita. Poi si asciuga qualche lacrima, si aggiusta, quasi sorride cercando di capire. «Lei», osa timorosa, «lei vorrebbe farmi da mamma?». La gravidanza andò avanti. Furono importanti i nostri aiuti economici ma ancora di più la relazione tra di noi. Ogni mese veniva al colloquio e, spesso, mi chiamava al telefono. Ricordo che una volta mi disse: «… e come stanno i fratelli?». Si riferiva chiaramente ai miei figli che lei non aveva mai conosciuto.
Il suo bambino nacque. Era un bellissimo bambino, non grasso, solo cicciottello e compatto. Di mano in mano qualcosa si metteva a posto, ma la situazione era sempre precaria. Ci chiamavamo al telefono e, davvero, avrei voluto avere la bacchetta magica. Joseph compì il suo primo anno e, purtroppo, anche gli aiuti del Cav ebbero fine. Inventavo scuse per farle arrivare qualche povera busta ma non se ne usciva. Pochi mesi fa, durante una delle nostre telefonate, le ho proposto di venire alla sede del Centro per provare a occuparsi delle pulizie. Amina, felice, cominciava a intravvedere una piccola luce. Oggi, al suo «ciao mamma Paola», il secondo dei suoi bambini si è fatto passare il telefono: «Ciao nonna, come stai? Voglio anch’io parlare con te e anche Fatima vuole salutarti».
Un senso di felicità mi pervade. I bambini hanno capito benissimo, dal saluto di Amina, che non sono la nonna del Marocco. Chiacchiero un po’ con questi nipotini che parlano un perfetto italiano, come la loro mamma del resto, e poi torno a parlare con Amina: «Voglio darti io la bella notizia. Aumenteranno le tue ore di lavoro e anche il tuo contratto diventerà definitivo. Contenta?». Con il sorriso nella voce: «Ti avevo telefonato», dice, «non solo per salutarti. Mi hanno chiamato per una sostituzione nel mese di agosto e volevo che la mia mamma lo sapesse. Adesso, tu, mi dai anche questa bella notizia. Non avrò di nuovo la preoccupazione per il rinnovo del permesso di soggiorno e i bambini avranno qualcosa di più. Già quest’anno ho potuto comprare per loro qualche piccola cosa per far festa il giorno di fine Ramadan. Erano molto allegri».
«Amina, ne sono felice. E cosa mi dici della bella notizia?». «Posso dire che la mia vita è cambiata completamente da quando ti ho incontrato. Ora lavoro anch’io per il Cav e, stai tranquilla, non ti farò mai fare brutta figura». Ridiamo. Facciamo progetti. «Vedi di riposarti», mi esorta, «voglio la mia mamma in forma». Baci telefonici. Virtuali, è vero, ma ne sento lo schiocco sulla guancia
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