"I medici dicono: aneurisma cerebrale.
Dico: cos’è?
Dicono: delle due vene che confluiscono nel cervello
una s’è ingrossata ed è esplosa.
Dico: cosa vuol dire?
Dicono: è morta.
Dico: è incinta”. Poi è nata Nicole
Era mattina, la solita mattina in cui ci si alza prima di svegliarsi.
Ci si veste e ci si lava, si fanno le chiacchiere più belle della giornata,
quelle nel tinello, quelle in cui il soffio delle parole
si mischia al fumo del caffè e si pensa
che anche oggi c’è da sfangarla, e chissà
che il capo non mi dia un aumento.
Cristina era di là, davanti alla caffettiera,
nella tipica postura che, da quando ci sono le mamme,
le mamme assumono.
Una mano appoggiata sulla schiena,
con il braccio a disegnare un arco uguale e opposto
a quella pancia che lì davanti stava crescendo.
Cristina preparava il caffè.
Era il 24 marzo 2006 e Toni sentì non un tonfo, ma “il” tonfo.
“Corsi”. Era Cristina.
Era immobile, non c’era alcun risucchio,
nemmeno affannato, del respiro.
Toni chiamò il 118. Via fino a Garbagnate.
È troppo grave.
Via fino a Milano, ospedale Ca’ Grande di Niguarda.
“I medici dicono: aneurisma cerebrale.
Dico: cos’è?
Dicono: delle due vene che confluiscono nel cervello
una s’è ingrossata ed è esplosa.
Dico: cosa vuol dire?
Dicono: è morta.
Dico: è incinta”.
“Ci eravamo conosciuti al bar.
Sì, lo so, il colpo di fulmine non esiste.
Però a noi ci colpì lo stesso.
Dopo due mesi andammo a convivere
mentre i nostri amici ci dicevano di stare attenti
perché io avevo 23 anni e lei 35.
Lei smise di prendere la pillola perché volevamo un figlio,
tutti e due lo desideravamo”.
Era il tempo dell’amore e del buonumore
e Toni s’ingozzava d’uova.
“Uova uova uova a tutti i pasti e a tutte le ore.
‘Che si mangia oggi?’.
‘Uova’. ‘Già, che te lo chiedo a fare?’.
‘Le uova ti fanno bene, Toni, ti danno la forza necessaria’”.
La forza arrivò e qualche mese dopo Cristina rimase incinta.
Per lei aveva scelto il nome di Nicole.
“Glielo dissi ai medici: Cristina è incinta al quarto mese.
Fate tutto il possibile per salvarla.
Però mi spiegarono subito che per lei non c’era nulla da fare,
e che sarebbe stata dura, molto dura”.
“Torni domani”.
“Tornerò”.
La mattina dopo, alle 6, Toni era di nuovo all’ospedale.
Gli fecero capire che casi simili in Italia mai si erano presentati,
e che nessuno di loro poteva vantare
un’esperienza in circostanze tante eccezionali.
Tuttavia la letteratura scientifica asseriva che altre dieci volte,
nella storia dell’umanità,
un evento simile era andato a buon fine.
Da una madre morta e tenuta in vita artificialmente
era nata una bambina viva.
Toni racconta che fu come un istinto primordiale,
che le parole gli uscirono di schianto,
che non ci fu alcun indugio, alcun tentennamento,
alcun ripensamento.
Toni si sentiva come un guerriero con un piede nella fossa,
“perché i dottori me lo ripetevano spesso: non si illuda.
E poi, guardi, che è facile che ci saranno complicazioni,
traumi, la bambina potrà avere danni alla testa,
forse non vedrà mai la luce’.
Gli amici mi mettevano in guardia:
‘Toni, non ci sperare troppo che poi la disillusione
ti farà venire il sangue amaro’.
Io mi sentivo come un alpinista
attaccato al suo filo sullo strapiombo dell’abisso.
L’alpinista ha solo quel filo, solo quello,
quel filo è la sua vita.
Quel filo era mia figlia”.
Toni si mise in aspettativa.
Tutte le mattine s’alzava,
andava all’ospedale ed entrava nella camera di Cristina.
Lei era avvolta da un gomitolo di cavi
che le entravano in gola e le perforavano in pancia.
Lui le parlava per ore e ore.
Per ore e ore discuteva con la sua pancia.
Le raccontava le sue giornate e i suoi pensieri
e ogni volta che vedeva un’ecografia
sentiva un’ascia di gioia spaccargli il cuore.
“La bambina si muoveva tantissimo, tantissimo.
Vederla mi dava speranza”.
Fuori quel corpo muto e immobile,
dentro quella vita furibonda.
Accadde una cosa strana, stranissima.
“I medici e gli infermieri si affezionarono.
Pareva quasi che tutto il reparto fosse incinta”.
Toni si ricorda bene delle piaghe,
se le ricorda perché le piaghe non c’erano.
Se lo ricorda anche Roberto Merati,
responsabile dell’Ostetricia,
che si sorprese assai che su tutto il corpo di Cristina
non ci fosse il marchio del decubito.
Sdraiata per 78 giorni su un letto,
la donna non aveva parte del corpo
che presentasse lesioni cutanee,
dai polpastrelli delle dita alla pelle martoriata
dalle cannucce che la affliggevano,
non c’era un centimetro del corpo che apparisse increspato.
Le infermiere ogni giorno la giravano e rigiravano,
le applicavano olii e pomate,
le riaccomodavano la treccia dei capelli.
Soprattutto la treccia dei capelli.
C’era un’infermiera che ogni giorno
gliela annodava perché Cristina fosse bella
come per un matrimonio,
splendida per quando arrivava il suo Toni.
Una volta Merati chiese all’infermiera perché lo facesse,
insomma, che senso ha?
Gli rispose:
“Perché se fossi io nelle sue condizioni
avrei piacere ad essere trattata così”.
“I medici passavano a vederla quella treccia,
gli altri infermieri,
i portantini davano una sbirciata oltre la porta
per vederla quella treccia”,
racconta Toni.
“La lavavano con cura tutti i giorni,
le passavano la crema lungo quel corpo silenzioso,
la profumavano”.
“Volevo sposarmi, ma non potevo.
Però anche Cristina lo voleva.
Ne avevamo parlato così tante volte”.
Toni comprò le fedi,
chiese a un amico prete se poteva venire.
Si ritrovarono nella stanza e dissero una preghiera.
Lui disse il suo “sì”,
lei tacque. “In cuor mio è mia moglie”.
Poi un giorno
– “si era nella ventinovesima settimana,
era il 10 giugno, erano le 5 e zero zero del mattino”
– chiamarono Toni a casa.
“Ha un calo pressorio, bisogna farla nascere”.
Toni corse, corse come non aveva mai corso in vita sua.
Arrivò.
Gli dissero: è nata.
Disse: dov’è? Non la vedo.
Gli dissero: è lì.
Guardò, ma non la vide.
Sollevò un lenzuolo.
Nicole. La prese.
Era lunga come la sua mano, pesava 713 grammi.
E fu amore e fu thanatos.
Perché nel giro di nove ore Toni fece la sua via crucis
dal miracolo della sala parto al dolore dell’obitorio.
A Cristina furono staccate le macchine
e Toni acconsentì che le fossero espiantati gli organi.
Al piano superiore un’altra donna aveva bisogno del fegato.
Le hanno dato quello di Cristina e oggi sta bene.
Toni passò cinque giorni a tracciare il solco del suo dolore
sui pavimenti che portavano dalla rianimazione all’obitorio.
Poi il funerale. Poi tutti i giorni avanti e indietro.
Da casa all’ospedale, dall’ospedale a casa.
“In quel momento ho capito cos’è la vita”.
Ha scritto Hannah Arendt che
gli uomini muoiono,
ma non sono fatti per morire.
Nascono per incominciare.
E Toni racconta che è proprio, banalmente, così.
“Nicole stava nell’incubatrice,
per toccarla infilavo le mani nei guanti di plastica.
La accarezzavo e le parlavo,
sperando non fosse l’ultima volta”.
A fianco di Nicole, altri come lei.
Altri bambini vivi per lo sbaglio di una natura
che non si voleva arrendere alle sicurezze
dei nostri preconcetti.
Accanto a lui altri genitori sgranavano rosari
coi denti per lasciare le dita libere di accarezzare
quei loro minuscoli figli.
“Lì sei come preso al lazo dalla vita
perché vedi mamme che si spremono il latte
per quei loro figli senza futuro.
I dottori glielo hanno già detto:
domani morirà.
Eppure cavano il latte dal seno,
anche se è l’ultima sera e domani mattina
dovranno tirare fuori il vestito bello per il funerale”.
Cristina Nicole
(così l’ha battezzata Toni, anche col nome della madre)
aveva bisogno di tutto.
Veniva nutrita con le flebo,
le infermiere le davano esigue quantità di latte,
cinque o sei centilitri otto volte al giorno.
...Poi arrivò il 25 agosto e Nicole fu dimessa.
Stava bene, poteva andare a casa.
“Mi sembrò di volare”, racconta Toni.
“Arrivai a casa e le feci spazio”.
Oggi Toni fa la vita di tutti i padri.
Si alza alle sei di mattina e va a lavorare.
Chiama
“dalle cinquecento alle seicento volte a casa
per sapere se va tutto bene”.
La madre di Toni è andata a vivere con lui,
“e senza di lei, i medici, Cristina e il buon Dio non ce l’avrei mai fatta”.
Poi rincasa la sera e trova la bambina ad attenderlo sull’uscio.
Sabato e domenica giro dei parchetti,
scivolo altalena gelato.
Sono l’uno il mondo intero dell’altro
e Toni non spende parole cubitali per descrivere la sua quotidianità.
Gli tornano i brividi a pensare a tutto quel che gli è successo,
ma non ha tempo per candeggiare la vita con l’immaginario.
Sa che è andata così e che all’impero di cartapesta
dei progetti s’è sostituita questa bambina in carne e ossa
che porta il nome dell’amata.
“Devo portarla regolarmente all’ospedale,
di tanto in tanto, per i controlli di routine.
Il compleanno l’ha festeggiato in corsia
con tutti gli infermieri e tutti i medici
che me l’hanno fatta nascere”.
Assicura di essere “un padre fortunato.
Sono rimasto attaccato a una speranza che non mi ha deluso.
Ringrazio tutti i giorni Cristina che,
morendo, mi ha dato la bambina.
Nicole sa tutto e quando crescerà glielo spiegherò meglio.
Adesso quando s’alza la mattina
prende la fotografia della mamma
che ha sul comodino e la bacia.
Un giorno saprà meglio anche i particolari,
pur conoscendo già oggi l’essenziale”.
Toni dice che già oggi,
mentre scambia le due chiacchiere mattiniere
nel tinello con Nicole,
è consapevole di essere “l’uomo più felice della Terra”.
di Emanuele Boffi, Il Foglio, 4 marzo 2008
http://www.tempi.it/mia-moglie-era-morta-ma-la-figlia-che-portava-in-grembo-era-viva-storia-di-toni-cristina-e-nicole
foto:Walter rosenblum Pitt stret
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