domenica 17 luglio 2016

Bud Spencer, l'uomo che rovinava i coccodrilli

il film che inizialmente doveva chiamarsi Il cane, il gatto e la volpe
e che cambiò il titolo dopo un’accesa discussione
in cui qualcuno gridò Dio perdona… io no!
in Sudamerica, mentre lavora alla costruzione della via Panamericana, scopre che un autista scarica il camion per asfaltare le zone fangose in cui vive con la famiglia. «Individuato il ladro, lo presi in disparte e lo stesi a suon di cazzotti. Dopodiché invece di denunciarlo o di farlo licenziare, mi preoccupai di fargli arrivare l’asfalto necessario per completare l’asfaltatura del suo villaggio».

«Lo so che convenzione vuole che il narratore concluda le sue memorie con qualche grande insegnamento sulle future generazioni, ma non mi viene in mente nulla di particolare, a parte qualcosa che già sapete ma che vale la pena di ripetere: non fate il bagno subito dopo i pasti e non abbandonate i cani»
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forse lassù in cielo sta ridendo con Gesù!!!
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Bud Spencer, l’uomo che rovinava i coccodrilli 

Luglio 11, 2016 Caterina Giojelli
Come si fa oggi a elogiare un eroe sregolato, grasso, fumatore, etero, monogamo e manesco che desiderava solo farsi «un piatto di spaghetti con Gesù Cristo»? Si può solo provare a raccontarlo

abbonamenti) – Ma cosa c’era sotto tutta quella barba! E pensare che se l’era fatta crescere solo dopo quello strano colloquio con Giuseppe Colizzi: «Parli inglese?». «No». «Hai mai avuto la barba?». «No». «Sai cavalcare?». «No». «Quanto vuoi?». «Cosa dovrei fare?». Cineasta meticoloso, Colizzi era a caccia di un gigante per uno dei tanti western che si giravano a quei tempi fra Italia e Spagna; Carlo Pedersoli era invece un ex campione di nuoto che aveva bisogno di soldi e non voleva campare di ricordi. Bud Spencer era nato così, nel momento in cui Carlo aveva realizzato di non avere in mano «uno straccio di niente che potesse dirmi cosa sapevo fare nella vita a parte divertirmi e nuotare». Quindi, barba. E una parte in Dio perdona… io no!
Quando se ne è andato, il 27 giugno scorso, subito è scattata la gara ad intestarsi il mito, gli incensi, i coccodrilli – lui, che di coccodrilli se ne intendeva mica per ridere. Grasso, anticomunista, eterosessuale, monogamo, fumatore, manesco, forzaitaliota, irriverente, marziano, curioso, due volte miracolato: ecco chi era Carlo prima e dopo Bud, un libero battitore tra le icone intruppate del mainstream, uno che, dalle policy sulla salute a quelle sull’incitamento alla violenza, avrebbe violato tutti gli standard di comunità. Lo diceva lui stesso spiegando perché la critica lo snobbasse, «forse perché non sono gay, né trans e ho la stessa moglie da cinquant’anni». Prova ne è che la sua autobiografia, Altrimenti m’arrabbio scritta con Lorenzo De Luca per Aliberti nel 2010, un best seller in Germania, in Italia è stata un flop: «Qui parlano di te solo se sei frocio o comunista», rincarò la dose, e un po’ doveva avere ragione se oggi ne abbiamo trovata una copia solo alla biblioteca di Lecco. Nel libro Bud Spencer immagina di incontrare, la sera del suo 80esimo compleanno, il giovane Carlo Pedersoli, fresco di record italiano nei cento stile libero, e di raccontargli cosa gli sarebbe accaduto.
«Sei rimasto lo stesso stronzo che fuma prima di tuffarsi, come se per te le regole del buonsenso non valessero», e in questa frase di Bud che incontra Carlo c’è già tutto. Un fico da spiaggia, nato in un momento e in una famiglia che non gli consente di fregiarsi degli inenarrabili patimenti d’inizio carriera che tanto danno lustro alle biografie della gente che piace. Sei chili abbondanti di bambino, Carlo regala il sui primo “ué” alla Napoli bene del quartiere Santa Lucia il 31 ottobre 1929, e inizia a passarsela “bene assai”, col padre industriale, l’autista in livrea, l’istitutrice tedesca che cresce lui e la sorellina Vera come crucchi, tanto che il padre non capisce una parola della lingua parlata in casa. Un’infanzia ricca e borghese, «e dovrei vergognarmene? Non credo, poiché io non mi ritengo attore, bensì un personaggio, mi posso permettere di rompere gli argini di talune convenzioni. Anche perché noi, senza una lira, ci siamo rimasti pochi anni dopo, durante la Seconda guerra mondiale, quando un bombardamento distrusse la fabbrica di mio padre».
Eccola, direte voi, l’attesa nemesi di una vita agiata: mamma Rosa che si mette a ricamare fazzolettini per fare due spicci, papà Alessandro che si dà da fare per non perdere la dignità. E Carlo che fa? Si mette a rubacchiare, com’è nello spirito di quel “Futteténne” che oltre al titolo di una sua canzone diventerà la sua filosofia di vita: portato ai guai fin da bambino (quando in pieno panico da sequestro Lindbergh scappa di casa col cuginetto), una notte si ingegna a fregare la farina a un treno merci fermo a Settebagni. Solo che il sacco pesa 60 chili e Carlo è ben contento di farsi derubare a sua volta poco dopo da due tizi armati; tornato al treno e afferrato un cilindro senza verificarne il contenuto, si infila dritto a un posto di blocco delle SS. Che lo rilasciano tra le risate accortisi che il bottino consiste in centinaia di bottoni.
E lo slancio ideale che porta i suoi a donare le fedi nuziali alla causa del paese distrutto? Alla strada dei coetanei che partono repubblichini o partigiani Carlo ne preferisce una meno patriottica «ma più salutare: nuotare». In acqua ce lo butta la prima volta Ninuccio, un marinaio di Seiano che traghetta su barconi i viaggiatori che arrivavano a Napoli col vaporetto («Grazie Ninù, questa è pure un po’ tua», ripeterà Carlo infilando ogni medaglia al collo). Il 19 luglio 1943, tornando da Trieste dove ha appena conquistato a soli 13 anni il titolo italiano dei cento metri rana, Carlo scende a San Lorenzo e prende un taxi. Pochi minuti dopo, il quartiere viene raso al suolo dal bombardamento americano che causa tremila vittime.

In piscina con la sigaretta
Miracolato e pure un po’ secchione, in barba ai cliché dei campioni sportivi, iscritto alla facoltà di Chimica a soli 17 anni, Carlo si imbarca per il Brasile dove i suoi hanno deciso di riparare dalla guerra, un mese e mezzo di navigazione che trascorre tra le scialuppe in dolce compagnia e i banchetti del cuoco costretto a cucinare solo per lui mentre tutti vomitano a poppa e a prua. In Sudamerica Carlo impara a fare di tutto, dallo scaricatore di porto all’impiegato al consolato, ma nel giro di quattro anni il mal d’Italia che consuma il padre riporta i Pedersoli a Roma, ed è allora che Carlo partecipa a due Olimpiadi (1952, 1956), tre campionati d’Europa, tre Giochi del Mediterraneo, diventa centravanti nella nazionale campione del mondo di pallanuoto. Osannato dai tifosi e «usato dalle tifose»: «Io facevo il possibile per non farmene scappare nemmeno una. In verità non è che le rispettassi granché, non me ne davano la possibilità». Matura anche qualche convinzione politica: scopre nel 1951 nella poverissima Russia che «ha da venì baffone» è una balla, s’impressiona davanti agli zombie vaganti di Berlino Est. Anni dopo rifiuterà l’invito di Fidel Castro ad andare a trovarlo a L’Avana nonostante il líder maximo si professasse fan sfegatato dei suoi film «perché i cattivi erano sempre ricchi capitalisti che prendevano le sberle».
Nel 1950 «fui il primo (italiano, ndr) ad andare sotto il minuto, ma poi lo feci altre cinquantacinque volte». Come? Futteténne: «Non solo fumavo, ma mi ero stabilito come regola che fare all’amore prima della gara mi aiutava e, aggiungendo la beffa all’insulto, non di rado mi presentavo in piscina con la sigaretta accesa». Quando l’università di Yale lo invita per studiare il suo caso, quello di un 26enne corpulento che in vasca va fortissimo, il responso è: pressione arteriosa 90-60, 39 pulsazioni al minuto anziché 80. Al campione del mondo Yamanaka che lo denuncia al rettore puntualizzando che «io non fumo, non bevo, mangio poco e non vado a donne», Carlo risponde: «E che campi a fare?».
I cazzotti, anche questi vengono prima di Bud: un anno, allenandosi a Bolzano per i Giochi di Helsinki, scende a corcare di botte un gruppo di tedeschi che sfottevano la nazionale italiana sotto l’albergo. A Roma con un solo schiaffone lascia a terra in via Nazionale un agitato macellaio che brandisce un coltellaccio. Le sberle le elargisce anche a fin di bene: in Sudamerica, mentre lavora alla costruzione della via Panamericana tra rivoluzionari e zanzare mannare, scopre che un autista scarica il camion per asfaltare le zone fangose in cui vive con la famiglia. «Individuato il ladro, lo presi in disparte e lo stesi a suon di cazzotti. Dopodiché invece di denunciarlo o di farlo licenziare, mi preoccupai di fargli arrivare l’asfalto necessario per completare l’asfaltatura del suo villaggio».

Il cinema per “necessità”
Dal 1954, quando la conobbe a una festa a Roma, è cotto di una morettina, «bella quanto mingherlina, in lei c’era e c’è qualcosa di cui non mi posso privare». Si chiama Maria ed è la figlia di Giuseppe Amato, uno dei più grandi produttori italiani (Ladri di biciclette, La dolce vita), che gli dice: «Io ho tre figlie. Questa è la più grande: non me la portare in Venezuela. L’adoro troppo. Famme o’ piacere». Si sposano, nascono Giuseppe, Cristiana, Diamante. E nasce il cinema, nasce da un problema: quello «di avere una moglie che ti è superiore per cultura sensibilità e denaro, e che nonostante questo sta in un angolo e non te lo fa pesare, è proprio il senso di colpa che monta vedendo che non riesci a darle il tenore di vita adeguato».
Carlo ha già all’attivo qualche fastidiosa comparsata e ruolo in produzioni importanti: per Quo Vadis si ritrova con mezza Roma a invadere Cinecittà in armatura in piena estate, schernito dalle donne, «ahò a pretorià, fa caldo eh?»; esasperato dalle richieste di Anthony Quinn si presenta dal produttore di Barabba Dino de Laurentiis così: «Dotto’, quello m’ha rotto. Che faccio? Je meno?». A Carlo, insomma, il cinema non piace, e ingrassa senza pensarci. Ma ha bisogno di soldi, e nell’Italia che si appresta a sfornare qualcosa come 440 film di cowboy sulle ali di Per un pugno di dollari, c’è una considerevole richiesta di bicipiti, pistole e speroni. È allora che arriva la telefonata di Colizzi. È una mattina del ’67, risponde Maria: «Tuo marito è sempre così grosso come alle Olimpiadi?». «No! È molto peggio».
Il resto è storia nota. Ciò che è meno noto è che per il neonato Bud Spencer (una crasi tra l’amata birra Budweiser e l’amato attore Spencer Tracy) improvvisarsi attore mica è tutto questo dramma, «nel cinema a volte può sfondare pure una scimmia: basta ripetere la scena finché non riesce». «Quanti vocaboli poteva conoscere un pistolero? 20, 25» e bastano tutti per il film che inizialmente doveva chiamarsi Il cane, il gatto e la volpe e che cambiò il titolo dopo un’accesa discussione in cui qualcuno gridò Dio perdona… io no!
Miracoli anche al botteghino
Sul set Carlo-Bud conosce, dopo averlo incrociato nella sua carriera da “comparsa,” Mario Girotti-Terence Hill, venuto a sostituire Peter Martell-Pietro Martellanza, infortunatosi la sera prima delle riprese demolendo a calci i mobili dell’hotel di Madrid dopo una lite con la sua donna. Seguono successi come Al di là della legge, I quattro dell’Ave Maria, La collina degli stivali: il western è avventura e, come disse Pasolini, quasi sempre buon cinema. La coppia si affiata, in Lo chiamavano Trinità si inventa situazioni comiche extra copione come “la piccionata” (il colpo sferrato a mo’ di mazzata dall’alto al basso che fa giravoltare su se stesso il malcapitato), diretta da un Enzo Barboni in stato di grazia. Terence è agile e si ficca nei guai, Bud è un bulldozer e lo cava fuori grugnendo tra schiaffoni e botte, «una formula del genere non poteva non piacere ai bambini», e infatti Lo chiamavano Trinità è un successo di famiglie, ottiene il più grande incasso nella storia del cinema italiano e col suo sequel Continuavano a chiamarlo Trinità attira un pubblico immenso.
La cifra di Carlo rimane tuttavia il Futteténne: nel 1972, mentre è in Colombia per girare Più forte ragazzi, invece di farsi sostituire da una controfigura pilota di aerei, spinge la leva e decolla (volare, una volta ottenuto il brevetto d’aviatore, sarà la sua grande passione per oltre 35 anni). Proprio su un set sul Rio delle Amazzoni, qualche tempo dopo, Carlo una mattina urina sangue. Parte subito per gli States dove il famoso dottor Robert Pincus gli rimuove alcuni papillomi consegnandogli un verdetto di morte: cancro. Carlo non lo dice a nessuno, pensa “futteténne”, e torna a menar cazzotti sul set convinto che sarebbe morto così, facendo ridere la gente a 45 anni. Finché un giorno torna negli States per l’ennesima visita e il dottor Pincus esclama incredulo: «It’s impossible», i papillomi sono spariti, «lassù qualcuno continuava ad amarmi».
Miracoli che si ripetono al botteghino: al termine di Anche gli angeli mangiano fagioli la ressa del pubblico in uscita dall’Odeon di Milano è tale che la cassiera si ritrova sospinta in piazza del Duomo con la cassa tra le braccia. Il suo preferito, scrive Carlo-Bud, resta tuttavia la storia del sempliciotto Banana Joe, che per difendere il commercio di banane e la sua numerossima famiglia indigena si scontra con progresso e burocrazia. Seguono i successi degli anni Ottanta, come Miami Supercops o Io sto con gli ippopotami, il trasloco in tv con Extralarge (Bud continuerà fino al 2010 a interpretare serie rispolverando l’amato ruolo dello sbirro poliziotto raddrizzatorti inaugurato negli anni Settanta con Piedone lo sbirro) e anche di qualche rifiuto «per decenza» a proposte più impegnate. Come quella di Fellini, che gli chiede di partecipare al Satyricon con la maschera del Trimalcione «nudo, in una vasca, con i putti che mi mordevano le chiappe» (dice sì però nel 2003 a Olmi e al suo Cantando dietro i paraventi).
«Non mi viene in mente nulla»
L’ex venti volte campione nazionale s’impegna moltissimo anche in altre faccende, come comporre canzoni folk e napoletane, fondare una casa di produzione di campagne pubblicitarie per la tv, aprire una compagnia aerea, depositare 12 brevetti, scrivere tre libri, candidarsi nel 2005 per Forza Italia: quattromila preferenze e una stima dichiarata per Silvio Berlusconi che in tanti oggi faticano a coccodrillare.
Impresentabile per quella sua allegra fede cristiana che non teme la morte («Come ultimo pasto immagino un piatto di spaghetti, lo condividerei con Gesù Cristo»), ai tanti testamenti scelti da chi oggi, come un repubblichino o un partigiano di allora, se ne contende il mito e l’intestazione, anche noi preferiamo quello più salutare, ovvero quello scritto di suo pugno alla fine di Altrimenti m’arrabbio: «Lo so che convenzione vuole che il narratore concluda le sue memorie con qualche grande insegnamento sulle future generazioni, ma non mi viene in mente nulla di particolare, a parte qualcosa che già sapete ma che vale la pena di ripetere: non fate il bagno subito dopo i pasti e non abbandonate i cani». Marziano fino alla fine.
Foto Ansa

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