martedì 22 luglio 2014

FRATEL ETTORE

Ettore bambino: uno scavezzacollo
La strada della sua vita iniziò il 25 marzo del 1928
in una famiglia contadina di Roverbella, nella campagna mantovana.

Terminate le elementari, a dieci anni, fu mandato a Monzambano,
presso certi lontani parenti che avevano bisogno di un ragazzo di stalla.
Un lavoro molto faticoso per un bambino.
Può darsi che i suoi “padroni” gli volessero bene,
ma Ettore non se ne accorgeva proprio.
Pensava sempre alla sua casa, alla sua famiglia.
Alla mamma in particolare.
Le rare volte che poteva tornare dai genitori e dalle sorelline, era felice,
si sentiva in un “posto caldo”, colmo di affetto.
A Natale la mamma preparava un pranzo speciale.
Cucinava un paio di polli, procurava i mandarini e,
se poteva, qualche pezzo di torrone.
Ed Ettore era contento, come tutti i bambini.

Durante la guerra era ormai un adolescente,
lavorava dove gli capitava: raccoglieva il fieno per le mucche.
Si assoggettava a qualsiasi fatica pur di guadagnare qualcosa.
Era un tempo duro e doloroso, c’era fame e paura per tutti.
Ne aveva ricordi precisi. Ma non era stato un periodo brutto solo per la guerra.
Era stato orrendo anche per un’altra cosa.
Aveva perso l’innocenza dell’infanzia ed era diventato uno scavezzacollo.

Aveva vissuto tanto tempo nelle stalle e aveva imparato a bestemmiare.
Bestemmiava continuamente, era diventato quasi un intercalare.
Gli amici avevano addirittura inventato un gioco:
trenta bestemmie, trenta centesimi di premio.

Ripensandoci non sapeva immaginare
quanto avesse potuto soffrirne la mamma
che era tanto religiosa.
Non aveva più voglia di pregare né di frequentare la chiesa.
I genitori lo mandavano sempre al catechismo,
ma lui preferiva stare con gli amici e le ragazze.
Quando tornava a casa la mamma
e il papà volevano sapere cosa gli avesse insegnato
 il prete e lui cercava di inventare qualcosa,
ma i genitori se ne accorgevano e lo mandavano a letto senza cena...
La conversione: fratel Ettore racconta...
“Don Everardo Corvi, il parroco di Malavicina,
organizzò, nell’ottobre del ’45,
un pellegrinaggio al santuario della Madonna della Corona,
agli Spiazzi di Caprino Veronese.
Tutta la popolazione era stata invitata
a trascorrere una giornata insieme in preghiera di ringraziamento.

Avevo deciso, non so nemmeno perché, che vi avrei partecipato anch’io.
Avevo diciassette anni.
Ricordo ancora il viaggio in camion, tutti cantavano e pregavano.
Giunti davanti alla statua della Madonna
il posto mi aveva molto colpito e avevo provato un’emozione strana,
che non so spiegare...

So solo di aver seguito con devozione tutte le funzioni e verso sera,
quando era ormai giunto il momento di ripartire,
di aver sentito il desiderio irresistibile di rientrare in chiesa,
di restare per un po’ solo davanti alla Madonna.
- Cara Mamma - avevo pregato quasi senza rendermene conto
- tu conosci la mia vita disordinata,
voglio cambiare, ma se tu non mi aiuti,
sono sicuro che domani ricomincerò da capo
 - quel giorno ho cominciato una marcia che dura ormai da cinquant’anni”.


“… Mentre tentavo di essere coerente
con la preghiera fatta davanti alla Vergine degli Spiazzi,
 il parroco mi aveva regalato un libricino intitolato:
Pensaci bene, e avevo scoperto che Gesù
aveva promesso a santa Maria Alacoque
l’indulgenza plenaria a chi, in grazia di Dio
e dopo essersi confessato,
avesse ricevuto regolarmente la Comunione,
ogni primo venerdì del mese per nove mesi consecutivi.

Per otto mesi ce la feci, difficile fu il mese di luglio.
Dall’alba avevo lavorato con lena nella stalla.
Poi, come al solito, avevo portato il mangiare
ai maiali e pulito il porcile.
Finalmente verso le undici, avevo finito
e decisi di raggiungere il paese,
dovevo percorrere quattro chilometri di un sentiero molto ripido
e mi restava pochissimo tempo per arrivare alla chiesa
prima che il sacerdote se ne andasse via.
Mentre di corsa scendevo lungo il viottolo,
provai un forte dolore a un piede
e mi accorsi di aver perso una suola dello scarpone.
Per fortuna la ritrovai subito e con un filo di ferro
riuscii a riattaccarla alla bell’e meglio alla scarpa.
Ripresi a correre ma ero stremato,
volendo infatti fare la Comunione,
ero digiuno dalla mezzanotte e dopo la lunga corsa
seguita a ore e ore di lavoro, mi pareva di non riuscire più a farcela.
Quando finalmente giunsi al paese,
le campane suonavano il mezzogiorno
e il parroco era già rientrato in canonica.
Rimasi molto male.
Recitai alcune preghiere e subito ripartii verso l’alpeggio.

Mentre risalivo incontrai un vecchio,
vestito con una tonaca nera con una croce rossa all’altezza del cuore.
Sulle spalle portava un bidone di latta,
se ne serviva per riporvi quanto riceveva in carità
dai pastori delle baite della montagna.
Mi fermai e gli raccontai la mia delusione
per non aver potuto finire i miei nove venerdì del mese,
fu molto paterno, mi consolò e mi salutò con una benedizione.

Era fratel Coser. Il primo Camilliano che avessi visto in vita mia".

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