“Davvero tutto è buono e splendido perché tutto è verità”. I fratelli Karamazov Fedor Dostoevskij
domenica 4 agosto 2013
TESTIMONIANZA DI MARIELLA
...ALLORA
CIO' CHE CI ACCADE,
HA UN SENSO
...BUONO
...SEMPRE
E COMUNQUE!!!
...NON HO MESSO IL PUNTO DI DOMANDA
...E' UN AFFERMAZIONE
ANCHE SE GLI AUTOGRILL SONO SOLO 2
DIO SPACCA
...ROMPE SEMPRE IL NOSTRO
LIMITE CI CHIEDE SEMPRE DI PIU'
...E NE VALE LA PENA...DIRGLI DI SI
PER GLI INSEGNANTI
...PER GLI EDUCATORI
...PER I BIMBI
...PER I VECCHI
...PER GLI AFFATICATI
...PER CHI VUOLE VIVERE
...A 2 POLMONI
IERI ME LO SONO RILETTO
...E' GIA 7 GIORNI CHE L'HO RICEVUTO, L'HO LETTO
L'HO RILETTO...E CONSIGLIO DI STAMPARLO
E DI USARLO ALL'OCCORRENZA
...CIOE' ALMENO 3 VOLTE AL GIORNO
...CIOE' AL SOPRAGGIUNGERE
DEL PRIMO CONTRATTEMPO...PRESUNTO
...ANCHE PER ME QUELLA E' LA STRADA
...QUELLA FRASE L'HO SPERIMENTATA ANCHE IO
COME MARIELLA
COLLAUDATA
...E CERTIFICATA
...FUNZIONA
...ECCOME
e se fossi tu Signore a darmi questi ragazzi per cambiare me?
...SOSTITUITE RAGAZZI CON QUELLO CHE VOLETE VOI
IL RISULTATO
...COME IN MATEMATICA
...NON CAMBIA
SANTA GIORNATAAAAAAAAAAAA
LA METTIAMO IN UN ALTRO MODO
DIO NON TURBA MAI LA GIOIA DEI SUOI FIGLI
SE NON PER DARNE UNA PIU CERTA E PIU VERA
ALESSANDRO MANZONI - PROMESSI SPOSI
LA METTIAMO IN UN ALTRO MODO...BELLISSIMO
...IL MIO PREFERITO
DAVVERO TUTTO E BUONO
PERCHE' TUTTO E' VERITA'
I fratelli Karamazov" di Fedor Dostoevskij
La frase di don Giorgio Pontiggia che citiamo qui di seguito è stata io spunto da cui prende le mosse l'incontro di questa sera : " L'educazione è sempre un rapporto, sempre, ed è sempre l'espressione di due esseri umani e quindi della libertà di due esseri umani, la libertà di chi cerca una strada, di chi cerca la sua realizzazione e la libertà di chi , avendo fatto quattro passi in più, può indicare alcune ipotesi di cammino, una prospettiva. L'educazione è sempre la comunicazione di questo, sempre. "
Siamo certi che l'incontro di questa sera sia una vera e propria sfida edu- cativa perché ci dà la possibilità di incontrare un testimone che per gli incontri fatti nella sua vita, per la sua umanità, per la libertà con cui opera, possiede una chiave di lettura della realtà che può essere un'ipotesi di cammino, una prospettiva per tutti. Procederemo quindi così, lasciando che la professoressa Carlotti ci racconti un po' di sé e della sua esperienza, poi lasceremo spazio alle domande perché ciascu- no di noi possa mettere a tema con lei quello che più gli sta a cuore nella sua personale avventura educativa.
Mariella Carlotti.
Il posto dove piangere
Io racconto alcune cose perché, come dicevo a Roberto e agli altri amici che mi hanno invitato, non ho intenzione di fare - né forse lo so fare - una lezione sull'educazione. Racconto semplicemente le cose che ho scoperto in questi anni insegnando. E, paradossalmente, la cosa più im- portante che dico per prima ed è la cosa per me più preziosa, 1' ho sco- perta dentro una situazione faticosa - perché io credo che le scoperte più importanti della vita uno le fa così, io credo che un adulto cresce solo attraversando delle grandi delusioni, anche delle grandi sconfitte insomma vi dico innanzitutto la cosa a cui più tengo, la cosa per me più preziosa, quella per cui sono stranamente sorpresa di essere arrivata a 52 anni e sempre contenta di vivere, non vedendo l'ora di alzarmi domattina per dovere andare a scuola. E che, sinteticamente, non mi sarei mai
aspettata, lo ho fatto una carriera nella scuola al rovescio, nel senso che ho incominciato ad insegnare lettere molto giovane, a 24 anni al liceo scientifico, poi al liceo linguistico, poi sono andata ad insegnare nella ra- gioneria; sono stata piuttosto fortunata e sono entrata in ruolo quasi su- bito, passata all'istituto tecnico-agrario, poi di nuovo a ragioneria, e poi sono finita in un istituto professionale.
Questa carriera al contrario non è stata voluta, perseguita, è stata una... sfiga, è stata l'esito del fatto che, per ragioni legate alla mia posizione, mi sono spostata; questa carriera è stata legata a circostanze legate alla mia vocazione: faccio parte dei Memores Domini (i consacrati di Comu- nione e Liberazione), mi sono spostata in quattro città diverse, in quattro province diverse e spostandomi quattro volte, come sa bene chi insegna nello stato, si va incontro a qualche difficoltà. Soprattutto per me che, non essendo sposata, non avendo figli, non ho neanche alcuni vantaggi che si possono ottenere nei trasferimenti.
Dovendomi dunque spostare più volte, ho dovuto accettare le scuole che c'erano fino a quando, quindici anni fa, andando ad abitare a Firenze, mi sono ritrovata in questo istituto professionale di Prato, esattamente nell'anno in cui Prato è diventata provincia e così, ancora una volta, mi trovavo di nuovo fuori provincia. Quando sono arrivata in questa scuola, poi non me ne sono più voluta andare, nemmeno adesso, che potrei tran- quillamente ritornare ad insegnare al liceo classico, me ne voglio andare: la mia scuola mi piace troppo, anche perché è inseparabile il luogo in cui ti succede il miracolo, dal miracolo ed io ormai a quella scuola sono legata con l'anima c il cuore. In questa scuola, l'Istituto professio- nale statale per l'industria e l'artigianato, per darvi delle coordinate, ho alunni tutti maschi, abbiamo circa il 40-45% di extracomunitari e gli ita- liani sono per la metà meridionali e per metà toscani, e una situazione molto difficile, anche socialmente. In questa scuola ho passato così i pri- mi due anni: avevo la sensazione di essere arrivata in uno zoo, che quel- la non era una scuola, era un'altra cosa. Era normale vedere colleghi uscire dalle classi piangendo perché succedeva di tutto. Avevo 36 anni, ero andata a Firenze per dare inizio a una comunità di Memores Domini di cui io ero quindi l'anziana, con quattro persone gio- vani che nel giro di due anni sono poi diventate venti: insomma, era ab- bastanza faticoso, Come, penso, succeda a tante mamme che si sposa
due anni di permanenza in questa scuola, uscivo di casa per andare a Prato, tra Firenze e Prato ci sono 7 Km di autostrada, mi fermavo all'area di servizio Peretola nord, piangevo per mezz'ora perché non po- tevo piangere a scuola; poi uscivo da scuola, riprendevo l'autostrada, mi fermavo all'area di servizio Peretola sud, piangevo mezz'ora perché non potevo piangere a casa.
E così ero entrata in questo giro di schiaffi e di pianti nelle aree di servi- zio.
Allora lo vuole Dio
L'altra cosa che ho fatto in quei due anni è stata la domanda di trasferi- mento: cercavo di andare in una scuola "normale", ma non me lo dava- no, avevo fatto una marea di trasferimenti nella mia carriera e così sono arrivata all'inizio del terzo anno di permanenza in questa scuola. Il 1 set- tembre di ogni anno c'è il Collegio docenti di inizio anno scolastico e alla fine del Collegio docenti, il preside mi chiama in presidenza e mi dice: "Senti, hai presente le due terze termiche dello scorso anno? - Io non le avevo avute, ma le avevo ben presenti perché erano la leggenda della scuola perché era veramente successo di tutto in quelle classi - Non so come dirtelo, ma il Provveditorato ce le ha accorpate, adesso è un'unica quarta di 31 ragazzi".
E' una classe tremenda, lui mi dice, 31 maschi. L’anno scorso nessuno ha mai fatto lezione in queste due classi, lui mi dice. E poi "Io ho pensato che la devi prendere tu. perché, secondo me, tu sei l'unica che in questa classe può riuscire". Io ho detto: No, guarda, non la prendo". E lui: "Perché"? E io gli risposi: perché le aree di servizio sono due". Lui mi dice: " Non capisco". Allora insiste: "Guarda io non so come fare, a chi vuoi che dia questa classe"? Dico io: " Ho un'idea: si dà alla supplente. Dovranno pur fare la gavetta questi giovani e in questa classe sicuramen- te si fa dell'esperienza". Allora lui mi dice: "Mariella, sarei un irrespon- sabile se accettassi il tuo consiglio, non giochiamo sulla pelle dei ragaz- zi e non si gioca neanche sulla pelle di un insegnante che inizia a lavora- re". Comunque, siccome per anzianità sono la seconda in graduatoria e ce ne sono almeno sei dopo di me, credo che si possa fare diversamente, dico io. Lui invece per la terza volta mi dice: " Io credo che questa classe- la puoi prendere tu. Anzi, io avevo pensato che tu potessi fare la coordi-
natrice di questa classe".
Allora, voi dovete sapere che io ho sempre avuto questa convinzione con cui nella vita mi sono trovata sempre abbastanza bene, il principio è il seguente: l'insistenza è Dio. Insomma, quando una cosa è così insi- stente, così addirittura troppo insistita, allora la vuole Dio. Sicché alla terza volta che lui mi ha fatto la proposta ho detto: " Ok, prendo io questa quarta".
Lui ha immediatamente tirato fuori il foglio per farmi firmare la presa in possesso della cattedra perché temeva che io ci avrei potuto ripensare. E io ho firmato subito... perché sapevo che ci avrei ripensato. Poi sono uscita dalla scuola, ho preso l'auto, mi sono fermata all'area di servizio di Peretola sud, e non ho pianto mezz'ora, ma ho pianto per un'ora e questo pianto aveva questo contenuto, alla base di questo pianto c'era questa consapevolezza: per mia mamma sono sempre stata una cogliona, perché mi sono andata a mettere in un casino tremendo; non ho le ener- gie per farlo, per portare sulle spalle questa classe, mi faranno morire. Mentre piangevo a dirotto, pensando a che cosa mi aspettava, d'improvviso nella testa mi è arrivata una domanda - ecco io credo che sono venuta questa sera a Desio solo per dirvi questa domanda, per- ché questa domanda è veramente un dono.
Quando io ripenso a quel giorno so che il dono di quel giorno è stato il fatto che dentro tutti i pensieri assolutamente confusi che avevo quel giorno, e dentro le lacrime di quel giorno. Dio mi ha fatto come dono questa domanda - d'improvviso mentre piangevo e facevo tutte le rifles- sioni che vi ho detto - mi è passata per il cervello questa domanda: e se fossi tu Signore a darmi questi ragazzi per cambiare me? Ecco, io credo che non si possa educare se uno non ha nel cervello questa domanda.
Testimoniare il cambiamento
Credo che il problema dell'educazione dipenda da un adulto che è in rapporto con l'altro con la consapevolezza che l'altro è la possibilità di cambiamento di sé. Perché ci sono solo due modi per stare di fronte alla realtà: o si sta di fronte alla realtà tentando di cambiarla, o si sta di fronte alla realtà per farci cambiare.
In verità, però, si cambia la realtà solo se si accetta di stare di fronte alla_6_
realtà avendo come preoccupazione la propria conversione. Un adulto genera qualcosa se accetta che la realtà che ha di fronte è la risorsa della sua speranza, perciò è l'unico modo con cui può cambiare sé. E uno educa perché testimonia all'altro il cambiamento che l'altro provoca in te. Questo è educare. Io credo che il problema dell'educazione stia tutto qui: un adulto educa se sta di fronte al proprio figlio o ai propri alunni sentendo che il proprio figlio, i propri alunni, il proprio marito, la propria moglie, i propri dipendenti, i propri compagni di lavoro, sono il modo con cui Dio mendica il suo cambiamento.
Così si educa, in quanto si è educati. Se invece uno vive il rapporto con la realtà avendo come scopo quello di cambiare il marito, di cambiare la moglie, di cambiare il figlio, di cambiare gli alunni, di cambiare i colle- ghi, uno diventa inevitabilmente violento o risentito e passa la vita a la- mentarsi che la realtà non è come quella che vorrebbe avere, rimprove- rando alla realtà di essere come è.
E se uno non sente che il figlio che ha è il figlio ideale ne fa alla fine un handicappato. Se uno non sente che la classe che ha è la classe ideale, non perché è perfetta, ma perché è quella che Dio dà a me per cambiare me, se uno non sente questo, uno fa come la mia collega di matematica che nei 12 anni in cui è stata mia collega, in tutti i consigli di classe della 1Va diceva questa frase: "la quarta di quest'anno è peggio della quarta dell'anno passato".
Dopo 12 anni in cui ha ripetuto per ogni quarta questa frase io le ho detto: "Senti, ormai siamo amiche, ti devo fare un'osservazione: se dicessi questa frase un anno, potrei pensare di essere sfortunata, se lo dicessi due anni di fila, penserei di essere molto sfortunata, se lo dicessi per quattro anni penserei che sono sfortunatissima, ma se lo dicessi dodici anni di seguito, mi domanderei se non sono forse io peggio dell'anno scorso!"
La mano di Dio che mi cambia
Io credo che il problema dell'educazione stia tutto qui: se la realtà è la mano di Dio che mi cambia oppure no, molti miei colleghi che non han- no chiaro che la realtà è la risorsa del proprio cambiamento non solo cambieranno mai la realtà, ma si condannano all'infelicità. Gli alunni hanno un giudizio perfetto sugli adulti, i ragazzi ci fanno una
radiografia, lo sentono a pelle se l'insegnante che entra in classe è ap- passionato a quello che dice loro o è risentito nei loro confronti, perciò L’unica possibilità che ho di cambiare la realtà è che la realtà cambi me. Scusate questa lunga premessa, ma io credo che educa solo chi è così povero che ha bisogno dell'altro per vivere. Tornando all'inizio, alla domanda: quel giorno in cui il preside mi appioppò la classe, fu un gior- no benedetto, perché fu lì che la domanda si fece avanti: e se fossi Tu a darmi questa classe per cambiare me? Per i primi due anni avevo pensato a come potevo cambiare i miei alunni e più ci tentavo più io ero triste, più loro erano inferociti.
Quando la domanda fu "come loro possono cambiare me?" cominciò un'avventura anche nel loro cambiamento: tutte le altre cose che vi dirò sono delle conseguenze di questa domanda e di quello che questa domanda ha generato. A quel punto andai a casa e, sull'onda di questa domanda, mi misi a preparare la lezione con davanti l'elenco di questa classe, di quei 31 personaggi sconosciuti, con le loro date e luoghi di na- scita e il Paese di provenienza. E pensai: "Devo fare in modo che questa domanda diventi il metodo con cui insegno".
Discorso sul metodo, la prima lezione
E mi ricordo che la prima cosa che pensai fu: "Immaginiamo che questo sia il mio primo giorno di scuola, ho 10 giorni per preparare le lezioni e il primo argomento che devo fare in questa classe è Leopardi". Guardai l'elenco degli alunni pakistani. Mi venne questa domanda - e vi giuro che in due anni di permanenza in quella scuola e nei 15 anni di in- segnamento precedente questa domanda non me la ero mai fatta - : " Ma che gliene frega a un pakistano di Leopardi ? Perché dovrebbero stare a sentire Leopardi?" Rimasi scioccata pensando che questa domanda non me 1' ero mai fatta.
Uno si fa questa domanda solo se ha in mente l’altra domanda, quella di cui vi ho parlato prima, e solo se hai in mente l'altra domanda capisce che la risposta a questa domanda è un'altra domanda. Allora, sembra complicato, però è semplice, diventa così: per rispondere a questa do- manda "Ma che gliene frega al pakistano di Leopardi?" dovevo risponde- re ad un'altra domanda, "Ma che mi frega nella vita, a me, di Leopardi?" Perché il pakistano, il ragazzino che mi sarei ritrovata davanti non è_8_
il diverso da me, ma è il fondo di me, e se Leopardi è il fondo di me parlo anche a lui. Lì mi si accese improvvisamente una lampadina e mi si chiarì all'improvviso quello che dovevo fare quell'anno, tanto che vi racconto come andò la prima lezione.
La prima lezione entrai in classe - e chi insegna sa che i primi 10-15 mi- nuti di lezione del primo giorno di scuola sono fondamentali perché gli alunni ti pigliano subito le misure - sapendo però che in quei 10-15 mi- nuti stanno attenti tutti, anche quei 31. Allora entrai in questa classe e dissi "Sentite ragazzi , io sono la vostra insegnate di Lettere e se Dio vuole sarò la vostra insegnante di Lettere per due anni, in quarta e in quinta. Io so che in questa classe non ha mai fatto lezione nessuno e non sono così presuntuosa da affermare che sarò io la prima a farlo, ma ci devo provare. Allora io adesso vi sfido, vi faccio un'ora di lezione e voi dovete decidere, ascoltandomi in quest'ora, se vale la pena ascoltarmi anche per le altre. Perciò vi sfido, vi chiedo di ascoltarmi un'ora." Ho dato un'occhiata al capo dei pakistani e al capo degli italiani, perché sapevo bene che la questione in quella classe si poteva decidere così, e il capo degli italiani si rivolge a me e mi dice "Le diamo un'ora!". "Bene"- rispondo io - "ma un'ora da uomini dove non fate per finta, dove ascol- tate lealmente, lo vi chiedo un'ora da uomini". E Nicolò mi risponde: "Bene, un'ora da uomini".
Così cominciai: " Il primo autore che vi spiego è Giacomo Leopardi". Avevo pensato per giorni a come introdurre Giacomo Leopardi, mi era venuta ... Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel mille.....per spie- gare questa frase ci mettevo un quadrimestre, per spiegare dov'era Reca- nati ... era troppo difficile. Allora dissi: "Sentite, Leopardi era un poeta italiano, fine della presentazione. Leopardi ha scritto un sacco di poesie e naturalmente queste poesie le mette... in bocca a se stesso. Sempre caro mi fu quest’ ermo colle, ecc. ecc.
Ma c’è una poesia che lui non mette in bocca a sè stesso, la mette in bocca a un pastore pakistano. I pakistani che erano lì si sollevarono: "Come un pakistano ? " "Sì", dissi, "si intitola Canto notturno di un pa- store errante dell'Asia, un pastore delle vostre parli" E io dico: "Perché vedete, lui ad un certo punto pensò: ma queste domande che ho nel cuo- re, questa tristezza che ho nel cuore, questo bisogno infinito di essere fe- lice, di essere amato, appartiene a me perché perché sono italiano, oppure appartiene a qualsiasi uomo, che sia cristiano o musulmano?
E lui fu sorpreso e fu commosso dal pensiero che quello che sentiva in cuore quando guardava il cielo stellato o quando guardava la donna di cui si era innamorato apparteneva al cuore di tutti gli uomini. Era senza tempo, senza cultura, senza religione. E allora ha messo questa poesia in bocca a un pastore del Pakistan".
Dissi che si faceva fatica ad ascoltare un quarto d'ora questa poesia e che per facilitarli avrei proiettato sul muro alle mie spalle una serie di cieli stellati e loro avrebbero dovuto immaginare di essere questo pastore sperduto. Dissi: "Vi detterò il testo di questa poesia e alla fine io chiede- rò a ciascuno di voi - perché questa non è una domanda rivolta alla clas- se, riguarda te, io chiederò a ciascuno di voi: ma secondo te, il titolo è giusto? O più umilmente avrebbe dovuto intitolarlo "Canto notturno di uno sfigato poeta marchigiano"?
E come fareste a decidere se il titolo è giusto? Considerate se mentre voi guardate il cielo stellato lui sta dando voce a tante domande che avete nel cuore: quando vi siete innamorati, quando avete trovato un amico ve- ro, quando avete guardato il cielo e il mare, quando voi due del Pakistan siete stati sull'aereo e avete visto la vostra terra che si allontanava e ave- te visto avvicinarsi una terra dove sareste stati trattati un po' come schia- vi. Allora potrete rispondere". Quando finii di introdurre la questione, pensai che in quei 10 minuti che passavano da quando avrei spento la lu- ce si giocava tutto.
Allora io ho letto questa poesia in un silenzio irreale, non volava una mosca, alla fine nessuno parlava. Allora io ho preso il registro, ho chia- mato, ho fatto l'appello e li ho chiamati uno ad uno, partendo dai più lontani per arrivare ai più vicini, e domandavo "Mohammad è il tuo can- to notturno?" "Sì prof, è il mio canto notturno." E così tutti e trentuno e alla fine ho detto: "Ragazzi non so voi , ma io ho fatto una scoperta dell'altro mondo, ho scoperto che tra me e te Mohammad, tra te e me che siamo separati da tutto, dall'età, dalla religione, dal Paese in cui sia- mo nati, da quello che ci passa per la testa, tra me e te c'è un campo sconfinato che ci fa uguali, che è il nostro cuore.
La letteratura è una lunga corsa su questo prato, se voi me lo permettete correremo lungo questo prato. Adesso decidete".
Il mio complice è il cuore
Ebbene, questa è stata la classe grazie alla quale io ho imparato ad inse- gnare, tanto che loro, quando io mi allontanavo da questo livello mi dicevano, "professoressa, sta barando". Perché io quella mattina lì ho scoperto che quando uno entra nel reale avendo come preoccupazione il proprio cambiamento, quando uno entra nel reale col proprio cuore, dav- vero comincia a parlare al cuore dell'altro: ed è così che comincia 1 ' avventura educativa.
Perché io con i ragazzini che ho di fronte, così irriducibilmente diversi da me, io di 52 anni e loro di 17-18 anni, io di fronte a un ragazzo così, in ognuno di loro, io ho un complice: questo complice è il suo cuore. Se mi interessa il mio cambiamento, devo accettare questa sfida, di dialoga- re con questo livello dell'altro. Non con il livello superficiale dei com- portamenti, ma con la radice dell'altro che è il cuore, perché questo è il complice che ho in ogni persona che incontro. Anche perché i ragazzi hanno un vantaggio rispetto agli adulti, che questo cuore ce l'hanno vivo. Sepolto sotto tutte le macerie, ma ce l'hanno e non vedono l'ora che qualcuno glielo sveli.
E soprattutto i miei alunni hanno un altro vantaggio: che sono poveri, Non si difendono. Il problema è che hanno davanti degli adulti che non dialogano con questo: li rimproverano, gli fanno un sacco di prediche, gli dicono quello che devono fare, ma non hanno il coraggio di dialoga- re col loro cuore. Sapete perché? Perché da troppo tempo non dialogano con loro stessi.
La preferenza è la strada per arrivare a tutti: perché dovrei
raccogliere funghi?
Per esempio l’anno scorso, avevo una classe quinta, non numerosa, erano solo 12, ma erano tremendi, e in questa classe c'era un ragazzo che immediatamente, dal primo giorno di scuola, mi era risultato simpa- tico. Ebbene l'anno scorso ha trovato conferma quella verità che ho sempre saputo, cioè che a volte bisogna seguire le preferenze, perché la preferenza è la strada che Dio ti dà per arrivare a tutti. Dunque, succede che dopo un mese di scuola faccio un test di Storia glielo riporto e il primo a cui lo restituisco, mancava un quarta d'ora alla fine della
lezione, il primo era Giovanni che aveva preso 3. E allora gli dico; "Giova, perché non hai studiato?" E lui dice che si fa fatica e allora io gli dico che non è vero. "Come non è vero - reclama lui - io non ho studiato perché si fa fatica!"
E io ancora: "giuro che non è vero, non è vero!" Allora i ragazzi comin- ciano ad arrabbiarsi e allora io domando loro: "Siete disposti a un esperi- mento in diretta così vi dimostro che non è vero?" Ha voglia, si dice in Toscana. Dunque, ecco quello che succede.
La morosa di Giovanni, Silvia, io lo sapevo, faceva teatro. E allora im- provviso un dialogo teatrale con lui, io e Giovanni. "Sei pronto ad im- personarmi nella situazione che ti suggerisco io? E allora dammi il tele- fonino." Faccio suonare, sono le 13,45, suona il telefonino. "Pronto chi è?" dice lui.
E io tiro fuori una voce strana e dico: "Ciao sono mamma." "Ah!" dice lui. "Ehi Giova sono in cima alla Calvara e sto raccogliendo porcini per- ché questa sera abbiamo ospiti e voglio fare i funghi: allora Giova, per- ché non vieni?" E lui: "Perché si fa fatica". Ma vi pare che questa è la ri- sposta? Ragazzi l'esperimento è finito. Ma in quell'istante suona il tele- fonino, cioè faccio suonare il telefonino.
E lui "Chi è?" "Sono la Silvia - dico, la ragazza, che tra l'altro sta nella scuola accanto - Giovanni sono in cima alla Calvara verresti a prendere i funghi con me?" "Di corsa!!!" risponde lui. "Allora Giova, e tutti voi ragazzi, siete persuasi che fareste tutti così?" E Giovanni dice sì, ma dice anche che in questo caso ci andrebbe perché sarebbe diverso lo scopo. "Allora - lo incalzo io - tu non hai studiato perché si fa fatica; quindi tu hai sentito che lo studiare è come andare a funghi con la tua mamma. Ma se ci fosse la Silvia? Perché vedi - dico io - si fa fatica quando non abbiamo uno scopo.
Allora l’errore che tu hai fatto non era quello di non studiare, ma quello di non rompere le scatole a me per comprendere qual era lo scopo dello studiare.
Perciò domani pomeriggio io mi fermo con te, per studiare con te, per farti capire perché io ci vado di corsa a raccogliere i funghi, cioè a stu- diare la prima guerra mondiale. Nella verifica successiva sulla prima guerra mondiale ha preso 9 e alla fine dell'anno 8 in storia. Perché è come se si fosse sbloccato qualcosa in lui, tanto che mi aveva fatto im- pressione; poi a questo ragazzo ho trovato un lavoro e i primi due o tre
mesi faceva fatica e allora tutti i venerdì veniva da me per fare il reso- conto della settimana.
Quel lavoro alla fine se l'è tenuto perché ha superato quella questione che lo bloccava, la fatica appunto, che oggi è un problema che si deve affrontare culturalmente e che invece tutti affrontano moralisticamente. Che si deve fare fatica, che ti devi impegnare, sono le tipiche risposte dei professori ai genitori: è intelligente, ma non si impegna. Gli deve dire che deve studiare, che deve stare attento.
Ho già detto qual è, secondo me, il punto di partenza della questione educativa, che è il cambiamento di sé, e questo per un adulto è la possi- bilità di dialogare con l'altro al livello del cuore.
Non tu devi, ma tu sei e questo comporta che nell'altro uno ha un com- plice che è il cuore. Perché l'avventura educativa è un adulto che vive il proprio cuore e attira il cuore dell'altro.
Come posso salvare il mio cuore?
Ma l'uomo, ed è la terza cosa che voglio dire, non deve insistere col pro- prio cuore, sarebbe la riduzione del cuore a sentimento, perchè inevita- bilmente si riduce il cuore a delle immagini, a degli idoli. L'uomo per salvare il proprio cuore deve insistere con la realtà. E per questo don Giussani definiva l'educazione in due modi.
Per prima cosa diceva che educare significa educare l'altro ad essere se stesso, cioè a vivere il proprio cuore. Ma poi dava un'altra definizione di educazione che aveva forse preso da un pedagogista austriaco: l'educazione è l'introdurre alla realtà, l'educazione è introduzione alla realtà E io mi sono sempre chiesta quale fosse il nesso tra queste due definizioni.
Ora, a me sembra, che la prima definizione sottolinea lo scopo, la seconda definizione il metodo. Cioè: lo scopo dell'educazione è per- mettere all'altro di essere se stesso, cioè di vivere il proprio cuore. E co- me fa a vivere il proprio cuore? Aiutando l'altro a vivere la realtà. Rac- conto un altro episodio - perché io so parlare solo per episodi, anzi, for- se, non è possibile fare altrimenti - in cui questo che ho appena detto mi è stato chiarissimo. In una quinta, tutti italiani. 13 italiani, un giorno en- trai in classe e dovevo quel giorno spiegare l'antisemitismo nazista. Mi ero portata dietro due o tre brani di Hitler sugli ebrei che volevo leggere
ai ragazzi per fare vedere come Hitler sentiva gli ebrei. Mentre stavo entrando in classe mi venne un'idea geniale. "Sentite ragazzi, oggi facciamo l'antisemitismo nazista, vorrei leggervi dei brani di Hitler sugli ebrei, ma prima di farlo vi do 10 minuti di tempo e voi su un foglietto scrivete chi sono gli ebrei. Tutto quello che voi sapete." Loro scrivono su biglietti anonimi, io ritiro questi biglietti e li leggo. Li avevo letti perché volevo far vedere la differenza tra quello che loro avevano scritto sugli ebrei e quello che diceva Hitler. Siamo rimasti scioccati, sia io che loro, perché quello che avevano scritto sugli ebrei era identico a quello che diceva Hitler. Esattamente le stesse frasi. Loro sono rimasti scioccati. "Siete di famiglie comuniste, votate comunista, piangete quando andate a vedere la Vita è bella e scrivete quello che di- ceva Hitler? Come mai?" Uno in particolare era atterrito e domanda: "Come mai prof?" E io gli rispondo: "La ragione è molto semplice, voi di fronte alla realtà non dite la vostra esperienza, ma ripetete semplice- mente quello che avete sentilo dire.
Allora la domanda è: come si fa ad obbedire alla propria esperienza? Come si fa a conoscere partendo dalla propria esperienza?" E io dissi: "Si bussa alla porta della realtà, perciò oggi facciamo lezione insieme, domani andiamo a Firenze, bussiamo alla porta della sinagoga e all'omino che ci aprirà domanderemo: scusi signore lei chi è? E noi scriveremo su un foglio quello che lui dice di essere. Questi sono gli ebrei. Naturalmente chiamai prima la sinagoga per... evitare di trovare un cretino che magari avrebbe convinto i miei alunni che facevano bene a scrivere quello che si diceva di loro. Invece incontrammo una persona meravigliosa che per ben due ore ci raccontò della sua storia. Il giorno dopo in classe dissi: "Adesso prende- te un biglietto e scrivete chi sono gli ebrei." Ho raccolto i biglietti e poi ho letto quello che diceva Hitler: erano due mondi; e allora ho detto ai ragazzi: " Noi questi due giorni abbiamo imparato una cosa molto importante: che il cuore per rimanere fedele a se stesso deve bussare alla porta della realtà.
Ieri abbiamo visitato Firenze per farvi capire un metodo, che si può com- prendere solo bussando alla porta della realtà. Non dite della vostra ra- gazza quello che dice la televisione; e ai genitori si dovrebbe dire bussa- te alla porta dei vostri figli, non dite quello che dicono alla televisione, permettete alla realtà di svelare il suo mistero. Perché l'avventura più_14_
grande della vita è conoscere la realtà. E solo conoscendo la realtà, uno conosce il proprio cuore. Io non sarò purtroppo accanto a voi tutti i giorni della vostra vita, per fortuna, perché lo scopo di un genitore o di un insegnante è che suo figlio non è che non se ne vada, ma che diventi grande.
Però ricordatevi che quella cosa che abbiamo imparato oggi è proprio importante. Perché per essere fedele al proprio cuore bisogna ogni giorno bussare alla porta della realtà."
Come può un ragazzo bussare alla porta della realtà?
L'ultima cosa che voglio dire è questa. Come fa un ragazzo a bussare col proprio cuore alla realtà? L'ho detto prima: seguendo un adulto che que- sto dialogo lo vive. Ma come fa un adulto a viverlo? Come ho fatto io a viverlo? Come faccio io a viverlo? E' qui l'ultima cosa che voglio dire, e che per me è la più entusiasmante. Che non si è educatori se non si accetta di essere educati. Non si genera niente se non si è generati ora. E perciò un adulto è un testimone per un ragazzo se vive questo dialogo col proprio cuore e questa avventura con la realtà. Ma per fare questo un adulto deve accettare di seguire un altro. Uno questa capacità da solo non ce l'ha. Da solo uno dice "La quarta di quest'anno è peggio della quarta dell'anno scorso e mio marito quest'anno è peggio di come era l'anno scorso e mio figlio non è come era a tre anni." Uno da solo dice così e uno da solo vede tutte le cose morire. Uno da solo vede le cose finire. Uno da solo vede le cose, tutte, peggiorare. Invece per vedere le cose che crescono, le cose che migliorano, per vedere che la vita è un luogo affascinante, bisogna avere un luogo che tenga sveglio il proprio cuore e il proprio rapporto con la realtà. Da soli si invecchia, insieme no, dentro una compagnia che ci educa no. Per questo aveva ragione Jean Guitton: il grande filosofo francese, tanti anni fa, venne al Meeting di Rimini , era vecchissimo, ma era uno di quei vecchi che a 90 anni hanno una faccia da bambini. L'incontro con lui fu bellissimo e chiuse l'intervento con questa frase: "Naturalmente la vita di un uomo è così: si nasce bambini e si muore vecchi, ma nella vita con Cristo si nasce vecchi e la lunga vita è una lotta per morire bambi- ni." Questo è un adulto che educa, quello che vive questa lotta per mori- re bambini.
Domande
Domanda: la condizione adulta è spesso intrisa dalla paura, tanto è vero che frapponiamo tra noi e la nostra responsabilità nei confronti della realtà gli esperti. Io sono un insegnante, e mi sorprende che quando c'è un minimo problema con i ragazzi anziché trovare colleghi disposti a giocarsi con questi ragazzi ci si nasconde dicendo "Qui bisogna fare intervenire lo psicologo". Noi adulti ci siamo creati tanti alibi, e uno di questi è il tecnico. Io vedo che l'adulto è molto tentato da questa posizione, forse da questa fuga. Dove si prende invece l'energia per partire, per non rifugiarsi dietro un tecnico?
Domanda: Quanti adulti partono con slancio in iniziative verso i ragaz- zi, si fanno dei bei propositi, sacrificano del tempo e poi vengono fregati dal ricatto dell'esito. Uno pensa di dettare i tempi della risposta dell'altro e la risposta non è mai come me l'aspetto e allora uno entra nello sconforto. E' quello che io chiamo il ricatto dell'esito e dunque, come si vince il ricatto dell'esito?
Carlotti. Ogni persona è impegnata in una responsabilità educativa, un genitore, un professore, un imprenditore - perché l'educazione non è un mestiere di pochi, l'educazione è una dimensione e quindi anche il pro- blema dell'imprenditore è educativo prima che economico perché se un imprenditore non tira su le persone che lavorano con lui, la fabbrica va proprio per aria. Ebbene, io credo che la grande emergenza di oggi, pro- prio come ha detto il Papa, è un'emergenza educativa. Questa questione è trasversale, attraversa tutti: io non ho paura della crisi, perché l'Italia di crisi ne ha vissute, io mi occupo un po' di Storia, e se uno guarda un po' la Storia, e soprattutto gli ultimi 150 anni della storia d'Italia, di pe- riodi difficili ne abbiamo passati e peggiori di questi. Eppure io ho paura di questo momento, molto di più di quanta ne avessi delle crisi precedenti, non perché la crisi è grossa, ma perché non vedo più la risorsa umana per affrontarla. Perché nel 1945 o nel 1918 c'era un'energia umana per affrontare le difficoltà che oggi non c'è. Perciò mi fa fatica la difficoltà che stiamo affrontando non perché questa sia una difficoltà grossa, ma la paura che ho di fronte a questo momento è quella di non sapere se noi saremo capaci di rispondere con energia alla sfida._14_
grande della vita è conoscere la realtà. E solo conoscendo la realtà, uno conosce il proprio cuore. Io non sarò purtroppo accanto a voi tutti i giorni della vostra vita, per fortuna, perché lo scopo di un genitore o di un insegnante è che suo figlio non è che non se ne vada, ma che diventi grande.
Però ricordatevi che quella cosa che abbiamo imparato oggi è proprio importante. Perché per essere fedele al proprio cuore bisogna ogni giorno bussare alla porta della realtà."
Come può un ragazzo bussare alla porta della realtà?
L'ultima cosa che voglio dire è questa. Come fa un ragazzo a bussare col proprio cuore alla realtà? L'ho detto prima: seguendo un adulto che que- sto dialogo lo vive. Ma come fa un adulto a viverlo? Come ho fatto io a viverlo? Come faccio io a viverlo? E' qui l'ultima cosa che voglio dire, e che per me è la più entusiasmante. Che non si è educatori se non si accetta di essere educati. Non si genera niente se non si è generati ora. E perciò un adulto è un testimone per un ragazzo se vive questo dialogo col proprio cuore e questa avventura con la realtà. Ma per fare questo un adulto deve accettare di seguire un altro. Uno questa capacità da solo non ce l'ha. Da solo uno dice "La quarta di quest'anno è peggio della quarta dell'anno scorso e mio marito quest'anno è peggio di come era l'anno scorso e mio figlio non è come era a tre anni." Uno da solo dice così e uno da solo vede tutte le cose morire. Uno da solo vede le cose finire. Uno da solo vede le cose, tutte, peggiorare. Invece per vedere le cose che crescono, le cose che migliorano, per vedere che la vita è un luogo affascinante, bisogna avere un luogo che tenga sveglio il proprio cuore e il proprio rapporto con la realtà. Da soli si invecchia, insieme no, dentro una compagnia che ci educa no. Per questo aveva ragione Jean Guitton: il grande filosofo francese, tanti anni fa, venne al Meeting di Rimini , era vecchissimo, ma era uno di quei vecchi che a 90 anni hanno una faccia da bambini. L'incontro con lui fu bellissimo e chiuse l'intervento con questa frase: "Naturalmente la vita di un uomo è così: si nasce bambini e si muore vecchi, ma nella vita con Cristo si nasce vecchi e la lunga vita è una lotta per morire bambi- ni." Questo è un adulto che educa, quello che vive questa lotta per mori- re bambini.
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Domande
Domanda: la condizione adulta è spesso intrisa dalla paura, tanto è vero che frapponiamo tra noi e la nostra responsabilità nei confronti della realtà gli esperti. Io sono un insegnante, e mi sorprende che quando c'è un minimo problema con i ragazzi anziché trovare colleghi disposti a giocarsi con questi ragazzi ci si nasconde dicendo "Qui bisogna fare intervenire lo psicologo". Noi adulti ci siamo creati tanti alibi, e uno di questi è il tecnico. Io vedo che l'adulto è molto tentato da questa posizione, forse da questa fuga. Dove si prende invece l'energia per partire, per non rifugiarsi dietro un tecnico?
Domanda: Quanti adulti partono con slancio in iniziative verso i ragaz- zi, si fanno dei bei propositi, sacrificano del tempo e poi vengono fregati dal ricatto dell'esito. Uno pensa di dettare i tempi della risposta dell'altro e la risposta non è mai come me l'aspetto e allora uno entra nello sconforto. E' quello che io chiamo il ricatto dell'esito e dunque, come si vince il ricatto dell'esito?
Carlotti. Ogni persona è impegnata in una responsabilità educativa, un genitore, un professore, un imprenditore - perché l'educazione non è un mestiere di pochi, l'educazione è una dimensione e quindi anche il pro- blema dell'imprenditore è educativo prima che economico perché se un imprenditore non tira su le persone che lavorano con lui, la fabbrica va proprio per aria. Ebbene, io credo che la grande emergenza di oggi, pro- prio come ha detto il Papa, è un'emergenza educativa. Questa questione è trasversale, attraversa tutti: io non ho paura della crisi, perché l'Italia di crisi ne ha vissute, io mi occupo un po' di Storia, e se uno guarda un po' la Storia, e soprattutto gli ultimi 150 anni della storia d'Italia, di pe- riodi difficili ne abbiamo passati e peggiori di questi. Eppure io ho paura di questo momento, molto di più di quanta ne avessi delle crisi precedenti, non perché la crisi è grossa, ma perché non vedo più la risorsa umana per affrontarla. Perché nel 1945 o nel 1918 c'era un'energia umana per affrontare le difficoltà che oggi non c'è. Perciò mi fa fatica la difficoltà che stiamo affrontando non perché questa sia una difficoltà grossa, ma la paura che ho di fronte a questo momento è quella di non sapere se noi saremo capaci di rispondere con energia alla sfida.